Abbandonare il maggioritario sarebbe un disastro: governi fatti e disfatti in parlamento evitano le decisioni difficili, recando danno ai conti pubblici
Siamo entrati nella prospettiva del postberlusconismo. A segnalarlo con chiarezza, ancor più delle confuse turbolenze che agitano la maggioranza, sono i fatti politici concretamente avvenuti nell’opposizione: l’elezione di Pierluigi Bersani a segretario del PD e la decisione di Francesco Rutelli di uscire dal partito per dar vita alla sua formazione autonoma. Ci si posiziona in vista delle combinazioni politiche che diventeranno possibili con la fine del potere coalizionale di Silvio Berlusconi.
Finché voleva mostrare di credere nella possibilità di disarcionare anzitempo il premier, al maggiore partito di opposizione conveniva esibire la “vocazione maggioritaria”, la possibilità cioè di essere un centro aggregante, seppure con rapporti interni di potere diversi da quelli delle maggioranze assemblate da Prodi. Quando ci si deve presentare uniti nel patto coalizionale, è giocoforza smussare le identità per presentare agli elettori un insieme credibile. Quando invece i giochi si riaprono, può essere conveniente rendere il proprio profilo ben netto; ancor più se il meccanismo elettorale consentisse di rimandare i compromessi a dopo, spenti che fossero i riflettori della campagna elettorale.
Nella prospettiva del postberlusconismo diventa dunque concreto il pericolo di un ritorno al proporzionale. Con altrettanta chiarezza bisogna dire che sarebbe un disastro. Governi fatti e disfatti in Parlamento evitano le decisioni difficili, perché sono per loro natura più deboli: col proporzionale i Governi sanno di cadere, il Parlamento confida di restare. I nostri conti pubblici recano i segni di decenni di Governi che durano pochi mesi e si succedono senza che si ritorni alle urne. Un sistema pienamente proporzionale sarebbe un passo indietro anche per il rapporto democratico, già abbastanza logorato, tra cittadini e istituzioni: se ci si presenta davanti all’elettore con l’arrière pensée che tutto o quasi può essere poi rinegoziato, l’assunzione di responsabilità diventa un atto di ipocrisia. Secondo Angelo Panebianco c’è ora una ragione in più: “la politica delle alleanze e delle coalizioni, tipicamente associata ai sistemi proporzionali, garantisce influenza e potere anche a piccoli partiti,” e ciò potrebbe rendere più facile l’ingresso a futuri partiti islamici, del tipo di quello che si è recentemente costituito in Spagna. (Se l’Islam diventa partito, Corriere della Sera, 18 Novembre).
Chi ha a cuore il maggioritario dovrebbe anzitutto sgombrare il campo dal “chiacchiericcio presidenzialista” (Augusto Barbera su Le Ragioni del Socialismo, Novembre 2009), un “paravento”, un “propagandistico alibi per tornare a rimodellare il sistema politico in senso proporzionalista”. Nel comune sentire, è il Presidente del Consiglio il responsabile della politica nazionale: è più realistico percorrere la strada del rafforzamento dei suoi poteri rispetto al Parlamento piuttosto che inventarsi un nuovo ruolo per la presidenza della Repubblica, su modelli americani o francesi nati in contesti istituzionali e culture politiche affatto diverse.
“Il problema italiano – è il punto centrale del ragionamento di Barbera- non è la mancata elezione diretta del vertice dell’esecutivo, ma l’assenza di poteri incisivi in capo al governo”. Occorre quindi una ridefinizione dei poteri tra esecutivo e Parlamento. Per i proporzionalisti, i problemi del maggioritario sarebbero incorreggibili, perché discenderebbero da una congenita allergia degli italiani a scelte binarie: quindi ritengono che la soluzione sia lasciare nelle esperte mani dei leader politici il formare le maggioranze in Parlamento. Altri, pur favorevoli al maggioritario, ora ne dubitano, denunciano le pratiche di cesarismo, la prevaricazione nei riguardi del Parlamento, con il ricorso esasperato ai decreti legge, ai maxiemendamenti e ai voti di fiducia: mentre queste sono degenerazioni che nascono dalla contraddizione tra la legittimazione del premier sulla scheda e la realtà di una sostanziale mancanza di potere.
Rafforzare il potere del governo sul processo legislativo può essere fatto con legge ordinaria o con modifiche dei regolamenti, senza il complesso iter delle riforme costituzionali. Ad esempio, conferendo al premier il diritto di fissare priorità per l’ordine del giorno, stabilendo l’obbligo del parere favorevole del Tesoro su leggi che comportino aumenti di spesa o diminuzione di entrata, dando priorità e tempi certi per i progetti del Governo. Dall’altro lato sarebbe questa anche l’occasione per metter mano finalmente allo statuto delle opposizioni.
L’elemento più indigeribile della attuale legge elettorale Calderoli è la designazione dei parlamentari, sottratta agli elettori e rimessa platealmente nelle mani delle segreterie dei partiti: chi riesce ad abolire questa stortura si assicura certa popolarità. Il rischio è che, se si mette mano alla legge. si finisca col ritorno al proporzionale. È quello che spera l’UDC di Casini, è quello a cui potrebbe aderire anche Rutelli: intanto nella sua formazione è già venuto a far parte un proporzionalista convinto quale Bruno Tabacci. E le altre forze politiche? La destra in teoria dovrebbe avere tutto l’interesse a mantenere il maggioritario: perché la legge in vigore porta la firma della Lega, e Fini è sempre stato presidenzialista; perché, dopo le tante promesse mancate del berlusconismo, questo potrebbe esserne il lascito più importante; perché così potrebbe sperare di protrarre il proprio potere coalizionale. Ma siccome è a destra che l’avvicinarsi della fine del ciclo berlusconiano provocherà i maggiori terremoti, da quel lato è più difficile fare previsioni.
È dunque sulla sinistra, sul PD che grava la responsabilità maggiore, e insieme è al PD che la riforma offre una grande opportunità: dimostrare che ha fiducia in se stesso. Perché chi si preoccupa di come governare, si candida a farlo. Incanalare il diritto di chi ha vinto le elezioni a governare in modi regolati dalla legge, senza far ricorso a forzature regolamentari, e assicurare quello dell’opposizione a fare il suo mestiere senza farsi condizionare da pregiudizi, servirebbe intanto a svelenire il clima politico per la parte che resta della legislatura, con ricadute positive anche su altre riforme. Con la maggiore chiarezza di posizioni e autorevolezza di leadership che si è prodotta nell’opposizione, imboccare questo percorso dovrebbe essere, a rigor di logica, più verosimile.
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novembre 20, 2009