“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio, è il nuovo libro dell’ingegnere Franco Debenedetti che dà spunti per una nuova linfa industriale che sembra persa nel nostro Paese. Un volume che il prof. Pennisi suggerisce di leggere insieme ad altri due scritti dagli economisti Ciocca e Zecchini, per completare un messaggio forte rivolto all’imprenditorialità italiana
Il nuovo saggio di Franco Debenedetti (“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio Editori, 2021, € 18) esce al momento giusto. In Italia si sta tentando di riprendere la via dello sviluppo che pare smarrita da vent’anni. Il documento che dovrebbe tracciarne la rotta (il Piano Nazionale di Rilancio e di Ripresa, Pnrr) è in ritardo; secondo economisti di varie “scuole” è lacunoso e carente.
Lo stesso Pnrr, già nella sua introduzione, spezza una lancia a favore del capitale e dell’investimento pubblico, dichiarandolo più socialmente efficiente di quello privato.
Spira, in generale, da qualche tempo un’aria poco favorevole all’imprenditoria privata: se ne è fatta portavoce a livello internazionale Mariana Mazzucato, docente all’Università di Essex, molto apprezzata del governo Conte (nonostante uno dei suoi ultimi libri sia stato “stroncato” su The Economist del 16-22 gennaio 2021). Questo vento è molto seguito da alcuni cenacoli intellettuali come il Forum delle Diseguaglianze composto da economisti e giuristi che hanno proposto di recente “nuove missioni strategiche per le imprese pubbliche”, in sintesi una nuova combinazione di Iri ed Efim. In effetti, la Cassa Depositi e Prestiti sta da qualche anno silenziosamente trasformando la propria finalità da quella di essere il depositario ed il custode del risparmio postale degli italiani (e soprattutto dei ceti a reddito medio-basso) in qualcosa che assomiglia ad una nuova Iri-Efim- Gepi, affiancata in questo compito da altre holding come Invitalia. Gli esempi potrebbero continuare.
In questo contesto, giunge come “un rompiscatole” ed una “voce fuori dal coro” Franco Debenedetti a rivendicare il ruolo dell’impresa ed a ricordare che il suo primo dovere – un dovere “etico” – consiste nel “fare profitti”. È una massima cardine di tutte le scuole economiche, anche di quella marxista- Ricordatevi il “compagni contadini, arricchitevi!”, slogan di Bucharin nel lontano 1925. Ma che spesso da qualche tempo chi professa di essere economista dimentica.
Franco Debenedetti non è un economista, ma un ingegnere che ha guidato e fondato importanti imprese industriali, spesso in settori innovativi. Dopo la sua carriera industriale ed imprenditoriale, si è posto al servizio del Paese in modo differente di quanto lo aveva fatto da imprenditore. È sceso in politica ed è stato senatore per tre legislature. Non nei banchi della destra o del centro ma in quelli della sinistra. Terminata questa non breve esperienza politica, presiede un think tank, collabora a quotidiani e riviste e, giovanissimo più di prima, scrive saggi in cui mette a disposizione degli altri la propria esperienza.
Il libro, di trecento pagine a stampa fitta (escludendo gli indici), si legge tutto di un fiato anche e proprio perché non è un libro di economia ma il frutto di una vita di lavoro, oltreché di studio e di riflessioni. È in cinque parti, ciascuna costituita da agili capitoletti. La prima parte è quella che più fa riferimento alla teoria economica. In essa si enuncia, prendendo il là da Milton Friedman, come “fare profitti” sia la prima, anzi l’unica responsabilità sociale dell’impresa e si passano in rassegna i “favorevoli” ed i “contrari” di questa ipotesi per poi illustrare come l’impresa nasce, cresce e funziona. La seconda parte analizza come l’obiettivo di massimizzazione del profitto debba e possa realizzarsi “nel rispetto delle regole fondamentali della società sia quelle incorporate nelle sue leggi sia quelle dettate nei suoi costumi etici”. Viene, quindi, tracciata una netta demarcazione tra il diritto/dovere dell’impresa e quello della politica che deve stabilire le regole ed assicurare che esse vengano osservate. La terza parte affronta il problema delle diseguaglianze, spesso indicate come conseguenza del “fare profitti”: circa quaranta pagine dense non di teoria ma di esempi dalla storia recente spiegano come un’impresa che massimizza i profitti è anche il miglior “ascensore sociale” come indicato che quasi il 70% delle persone considerate da Forbes come le più ricche del mondo hanno fondato e guidato la propria impresa.
La quarta parte riguarda l’impresa e le tecnologie. Solo un cenno alla «prima rivoluzione industriale» per introdurre come la società e le imprese cambiano nell’età della tecnologia dell’informazione e gli inquietanti interrogativi che essa pone sia a chi deve regolare (e vigilare) le imprese sia a chi intende crearle e condurle. Ancora più inquietanti quelli posti dal “fare profitti” dalla pandemia sia dal prender spunto da quest’ultima per un’avanzata dello Stato, e della mano pubblica nell’economia in generale.
Da un lato, ci sono i “profittatori”, come in tutte le guerra (quella in corso e contro un nemico sconosciuto, subdolo ed in continua mutazione). Da un altro, lo spirito imprenditoriale viene stimolato dalle infauste circostanze: si pensi al breve periodo in cui centri di ricerca, principalmente di impresse, hanno sviluppato e messo in produzione vaccini. La net economy e la pandemia stanno anche modificando i paradigmi d’organizzazione e conduzione imprenditoriale. Ma l’obiettivo e la finalità etica non cambiano: fare profitti.
Questo è un brevissimo sunto di un libro ricco in cui le trecento pagine, organizzate in venti capitoli scritti in stile più giornalistico che accademico, si leggono agevolmente e volentieri. Anche se il loro sottostante ha ragionamenti densi sulla base di esperienze e di studi.
Potrà contribuire a sconfiggere l’offensiva anti-impresa guidata da Mariana Mazzucato, dal Forum delle Diseguaglianze e da tanti altri in questo primo scorcio di 2021? Potrà soprattutto contribuire a forgiare una nuova migliore politica economica rispetto a quella senza bussola che pare da qualche tempo dominare l’Italia? Molto dipende da chi lo leggerà ed in quale contesto. Il saggio scritto in uno stile piacevole ed accessibile tale da essere una lettura attraente per quelle che un tempo venivano chiamate “persone colte” è chiaramente diretto a quello che veniva definito il “ceto dirigente”.
Meriterebbe di essere letto insieme a due libri recenti, ambedue pubblicati da Donzelli Editore, di autori che non possono essere definiti contigui alla destra: “Tornare alla crescita: perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare” di Pierluigi Ciocca e “La politica industriale nell’Italia dell’euro” di Salvatore Zecchini. Ciocca e Zecchini, a differenza di Debenedetti, non provengono dal mondo dell’imprese, ma da quello di grandi istituzioni economiche sia nazionali (Banca d’Italia) sia internazionali (Fondo monetario, Ocse) ed insegnamento universitario. I tre lavori si integrano e lanciano un forte messaggio: un Paese, tendenzialmente caratterizzato da lunghe fasi di stagnazione, ha avuto periodi di crescita nell’età giolittiana e dopo la Seconda guerra mondiale e può averne nell’Europa della moneta unica perché un diritto dell’economia semplice e trasparente, certezza delle regole ed apertura dei mercati hanno stimolato e stimolano l’imprenditorialità a svolgere al meglio i propri compiti e la propria missione.
Occorre chiedersi se è ciò che è avvenuto negli ultimi anni e se è alla base delle politiche pubbliche in gestazione.
Leggi la versione originale sul sito formiche,net
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gennaio 18, 2021