Prodi, l’Unione è sulla strada giusta?

marzo 2, 2005


Pubblicato In: Giornali, La Stampa

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Il centrosinistra non deve più guardare ai modelli di socialdemocrazia europea

Una successione di snodi ideologici, il ricorrere di alternative strategiche, su cui appassionatamente si discusse, sanguinosamente ci si divise, e accanitamente si combatté: così appare la storia della sinistra a Umberto Ranieri (La sinistra e i suoi dilemmi, I Grilli, Marsilio). E la ripercorre, con dolente spietatezza, dalle origini all’oggi.

Aveva ragione Eduard Bernstein, scrive Ranieri, nel denunciare i due errori dell’ortodossia socialista, credere al mito del crollo inevitabile del capitalismo, e non capire che “il primato della libertà politica segna il confine invalicabile delle stesse riforme politiche”. Aveva ragione Max Weber nell’indicare nella mentalità radicale la causa dell’impotenza politica della socialdemocrazia tedesca, irretita “in un dibattere e ragionare fiacco, cavilloso, lamentoso”. Aveva ragione Turati nell’opporsi al massimalismo che vede le riforme come illusione socialriformista e che paralizza il partito con “l’intero catalogo dei miti e dei tic del massimalismo”. Aveva ragione Carlo Rosselli, nel voler separare il socialismo dal marxismo e farne la “sintesi con il liberalismo”.

Invece Bernstein fu considerato un traditore, con Turati ci fu la scissione di Livorno, il socialismo liberale di Rosselli fu liquidato da Togliatti nel 1931 come “quattro idee superficiali” di “un piccolo borghese presuntuoso”.
In tempi più recenti, alle tesi dei moderati illuministi, Ugo La Malfa e Pasquale Saraceno, la sinistra oppose la teoria delle riforme di struttura, “una delle formule più ambigue, oscure e infelici della sinistra italiana”. Il primo centrosinistra fallì tra “il balbettio astratto e ideologico delle correnti di sinistra [e] le rigidità del PCI”. Il compromesso storico ne fu “il tentativo estremo di assumere il ruolo di forza di governo senza un ripensamento di fondo del proprio impianti ideologico” L’alternativa a sinistra fu una “contraddizione logica”. Il Berlinguer degli appunti di Tonino Tatò “mostra di non cogliere in alcun modo ciò che va maturando”: e sarà “la sconfitta su due questioni decisive, gli euromissili e la scala mobile”. La maledizione non risparmia neppure Craxi alla fine della sua parabola: fu “cecità” non rendersi conto che “il sistema politico italiano e le forze che ne erano state l’architrave erano ormai giunte alla fine”. La svolta di Occhetto, a cui “si arriverà dopo un estenuante cammino”, sarà un cambiamento di nome “senza fare i conti con la storia”.
Sul quinquennio della sinistra al Governo i giudizi di Ranieri sono, se possibile, ancora più amari. Ci fu pure un momento, in cui sembrò possibile dare al Paese riforme istituzionali per muoversi verso uno stabile e sicuro bipolarismo: ma contro la Bicamerale di Massimo D’Alema si coalizzarono “sia le posizioni di resistenza alle riforme e di difesa dello status quo, sia i sostenitori della tesi secondo la quale la riforma può realizzarsi solo attraverso lo scontro e l’appello diretto ai cittadini” e il tentativo diventò “il bersaglio preferito di tutti i populismi [...] il capro espiatorio per tutti i problemi con cui il centro sinistra dovrà misurarsi”.

Protagonista, in un libro di storia, il tempo lo è sempre: qui è ansia, che diventa affanno venendo ai giorni nostri. E si comprende perché, per Umberto Ranieri è entrato nel PCI giovanissimo, alla fine degli anni sessanta, il senso del tempo attraversi, tragico, le sue pagine. Si leggano quelle su Giorgio Amendola e sul “paradosso” dei comunisti riformisti: quanto tempo perso per cercare di riformare l’irriformabile, per trasformare una struttura in cui non c’era nulla che valesse la pena di essere conservato tranne il patrimonio di fiducia di coloro che lo votavano! Davvero la vecchia talpa non ha scavato bene: è sempre sbucata fuori o nel posto sbagliato o in ritardo.

Chi ci garantisce che questo non capiterà anche in futuro? Chi ci assicura che questa abitudine a sbagliare strada non continuerà? Questo è il dilemma di oggi, a cui ci conducono i “dilemmi” analizzati da Ranieri. “All political lifes end in failure”: la battuta di Enoch Powell vale anche per la vita dei movimenti politici, il loro succedersi è fisiologico. Ma questa obbiezione metodologica, non funziona per la sinistra italiana, che come tale al governo non c’è mai stata. Oggi si è finalmente ricongiunta con la sinistra dell’Europa continentale: ma il modello è quello giusto? Ci sono buone ragioni per dubitarne. La vigorosa crescita economica del dopoguerra si è venuta attenuando a partire dagli anni 70.. Dall’inizio degli anni 80 tutti gli indicatori dànno l’Europa continentale in forte ritardo rispetto ai paesi anglofoni. L’interpretazione classica (di Mancur Olson) è che dipenda dalle “coalizioni distributive”, gruppi di interesse che perseguono il proprio esclusivo vantaggio. La seconda guerra mondiale ne smantellò molti, e seguì un grande periodo di crescita. Ma proprio a seguito del successo economico, la spesa per il welfare, le tasse per farvi fronte, e la regolamentazione dell’economia aumentarono rapidamente nei tre paesi dell’Europa continentale. A lungo andare il sistema si irrigidì, l’innovazione rallentò, diminuì la crescita della produttività, aumentò la disoccupazione. Per trarre vantaggio dell’impiego delle nuove tecnologie, è necessaria una grande flessibilità: ma i costi per licenziare e per chiudere fabbriche hanno ostacolato la capacità di adattamento dell’Europa continentale. I modelli derivanti dall’innesto sul ceppo socialdemocratico sia della Soziale Marktwirtschaft sia del neocolbertismo gollista, vanno in affanno di fronte al rapido cambiare del contesto internazionale.

Trovare “una nuova ricetta capace di ricollegare sviluppo, occupazione, coesione sociale”: questo è il compito, formidabile, di tutta la sinistra europea. Quella italiana ha una difficoltà in più, il “fatto singolare” che costituisce la debolezza storica del riformismo italiano di radice sia socialista sia cattolica. I riformisti – osserva Ranieri – “più che ad affermare la propria identità sembrano interessati a non perdere il legame con le componenti massimaliste in una sorta eterna ricerca dell’appeasement con queste ultime che, nei fatti, finisce per consegnare loro un surplus di potere politico e di potere di condizionamento. E finisce per risolversi in una rincorsa a senso unico in cui alla fine solo i riformisti pagano un prezzo”.
Nel ’96 il centrosinistra credette di superare il dilemma con l’espediente tecnico della desistenza. Dieci anni dopo, Romano Prodi riprova con un’alleanza allargata, l’Unione. L’impressione è che voglia smontare quel che resta delle impalcature ideologiche e identitarie dei partiti, e sostituirle con il senso di appartenenza a un soggetto nuovo. Ma perché la sua strategia abbia successo, deve evitare l’irrigidirsi di chi vi vede una nuova forma dello “scavalcamento che alcune correnti democristiane hanno tante volte tentato nei confronti dei socialisti”. Soprattutto deve scongiurare il pericolo che il tutto si risolva in un “compromesso confuso e controproducente”, in una “pastetta”, in cui l’identità del progetto politico sfuma e si perde.

Una strada per rompere con la via dei “dilemmi” ci sarebbe pure: buttare via il bozzolo della crisalide e far volare la farfalla, lasciarsi alle spalle compatibilità e mediazioni e puntare tutto sulla attrattiva della visione di un futuro per il Paese, intorno alla quale ricostruire la propria base sociale. Ma per farlo ci vogliono idee nuove e queste non vengono dai modelli vecchi. “L’Europa delle protezioni sociali, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera” (24 febbraio 2005), che considerava i tagli fiscali di Bush poco più che stregonerie, rischia l’assedio”. Il modello delle socialdemocrazie continentali nella sua interpretazione ortodossa può forse ancora andar bene a chi ha (avuto) robuste strutture industrial-finanziarie, a chi ha un’amministrazione pubblica capace e efficiente. Per trovare le ispirazioni di cui ha bisogno, il nostro centrosinistra, ne sono convinto, deve guardare altrove.

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