C’è da scommetterci: l’impegno alle privatizzazioni avìà la sua brava evidenza nel programma del governo Prodi. Ma la mia opinione è netta: l’impegno sarà efficace solo se l’obiettivo della restituzione al privato delle imprese di Stato sarà diverso da quelli sin qui esplicitati. Se il fine delle privatizzazioni fosse sistemico rispetto alle condizioni del Paese, esse dovrebbero essere accompagnate da decise liberalizzazioni, volte a rendere i mercati concorrenziali e le imprese contendibili. Ciò in Italia sinora è mancato, mentre al contrario poteva rappresentare la risposta più immediata al problema di come reintrecciare l’ordito asfittico della finanza italiana con quello dello sviluppo. E potrebbe essere una delle più grandi chances per il governo Prodi imboccare con decisione questa strada, che potrebbe contribuire al rating di fiducia internazionale dell’Italia quasi se non quanto le manovre di finanza pubblica.
Risanamento della finanza pubblica, miglioramento di efficienza delle imprese privatizzate, rilancio della borsa: queste le ragioni via via addotte per privatizzare, dalla commissione Scognamiglio del 1990 ai quattro governi che, tutti, hanno posto il tema tra i propri impegni. Ma in realtà nessuno di questi obiettivi era ed è in sé sufficientemente forte per giustificare le privatizzazioni.
Non si privatizza per risolvere i problemi del bilancio pubblico. Le dismissioni pubbliche italiane, escludendo il patrimonio immobiliare di difficile liquidazione, valgono non più di 100 mila mld, il 5 per cento del reddito nazionale. L’effetto sul debito pubblico è trascurabile. Sotto il profilo finanziario, vendere azioni di società in utile è in teoria equivalente per il Tesoro a emettere titoli del debito pubblico. Più rilevanti sono i risparmi dovuti a minori trasferimenti, per far fronte sia a perdite di esercizio, sia a investimenti che o non sono coperti da autofinanziamento o lo sarebbero solo con aumenti tariffari: a patto naturalmente che con il passaggio di proprietà cessino anche i trasferimenti. Se il bilancio pubblico fosse stato l’obiettivo, si sarebbe dovuto incominciare a vendere le aziende più dissestate, e senza lasciare in capo allo Stato le aree di perdita.
Quanto all’efficienza gestionale, tale obiettivo potrebbe essere raggiunto anche con altri mezzi, ad esempio con il vincolo di bilancio, che già ha operato negli anni recenti. Chiusi i casi più scandalosi del passato, alcune delle imprese del settore pubblico hanno prodotto risultati economici che non sfigurano rispetto a quelli, certo non brillanti, dei maggiori gruppi privati.
Perché il rafforzamento del mercato mobiliare consegua alle privatizzazioni, questo obiettivo dovrebbe essere assunto come prioritario rispetto agli altri, in particolare a quello di massimizzare i ricavi dalle cessioni.
In realtà non è stato questo il caso, e quando è avvenuto – come per Comit e Credit – non è certo stato per scelta. Anche una volta caduto il tabù del 51 per cento in mano pubblica, la propensione a vendere le grandi conglomerate difficilmente scalabili invece di operare il break up delle società operative, la retorica della public company, la golden share usata anche a costo di violentare l’essenza stessa della società per azioni, tutto sta a dimostrare che il rafforzamento del mercato mobiliare è stato costantemente subordinato ad altri fini.
Tutti questi obiettivi, falsi o contraddetti da come le privatizzazioni sono state concretamente condotte, sono stati argomenti retoricamente usati per quella che in un bel recente volume Alfredo Macchiati, capo della divisione studi della Consob, ha definito «risposta adattativa» da parte di una classe politica in duplice crisi: sotto l’accusa di eccessiva intrusione della politica nella questione economica, e sottoposta a pressioni sociali crescenti per risolvere con risorse sempre più scarse una serie di domande redistributive. Non a caso sono stati i governi tecnici – soprattutto Amato e – a far avanzare il processo, internatosi in vece sotto il governo ‘politico’ Berlusconi.
Anche quello di Prodi è un governo `politico È impensabile che Prodi, e la sinistra per la prima volta al governo arrestino, proprio essi, un processo tra l’altro ormai nominalisticamente non più controverso. Aiuterà perfino l’opposizione di Rifondazione, che consentirà al governo di conquistarsi una patente di autonomia. No, il problema del centro sinistra non sarà la privatizzazione in sé.
Oggi le constituencies delle aziende pubbliche – management e sindacati – non solo non temono più la privatizzazione in quanto tale, ma ora che ritengono di avere ‘amici’ sul ponte di comando legittimamente vedono la possibilità di riconquistare per sé attraverso questa strada una funzione neo-keynesiana, se non neo-colbertiana. Riaffiora il progetto di accorpare tutte le attività di trasporto, terra mare e cielo; le Autostrade con la rete in fibra ottica si candidano a giocare una propria partita nel gran gioco delle tic; Stet si candida a progetti internazionali, incurante dell’epiteto di high bidder loser (‘il velleitario perdente’, si potrebbe tradurre) appioppatole dal Financial Times.
È ben chiaro che limitarsi a cedere sul mercato anche rilevanti quote azionarie delle attuali holding e conglomerate, lasciandole per il resto come sono, impegnate in una miriade di settori collaterali o beneficianti, delle attività essenziali sin qui esercitate in monopolio; viene considerato da management e sindacati tinti profittevole opera di cofinanziamento sul mercato dei capitali, destinata, quanto ad assetti d’impresa, gestione e controllo, a non modificare per un pezzo un bel nulla. Grandi public company, protette da stringenti limiti azionari e da compiacenti golden share, quotate e quindi facilitate nella raccolta del risparmio, garantirebbero al sistema politico la possibilità di comandare senza la responsabilità di possedere. Per Enel e Stet la cosa è a portata di mano. Per la Rai, smussata la componente politica della concorrenza Fininvest, non sarebbe affatto impossibile.
Paradossalmente, perfino le ragioni della stabilizzazione macroeconomica potrebbero essere invocate per privatizzazioni che limitino al massimo la liberalizzazione. Il sistema tariffario dell’energia e delle tic ha infatti un grande effetto redistributivo, con le tariffe domestiche largamente sovvenzionate da quelle per le industrie. La liberalizzazione necessariamente andrebbe nella direzione di un loro riequilibrio. A ripensarci, le richieste di correzione tariffaria recentemente avanzate da Stet ed Enel forse non erano finalizzate solo al miglioramento del conto economico. Ma anche a far apparire bene da difendere ciò che in realtà è ostacolo alla trasparenza da superare.
Sono timori fondati? Essi saranno fugati solo se con Prodi il processo di privatizzazione troverà un obiettivo esplicito: realizzare mercati concorrenziali. Una politica guidata da due fari: un mercato concorrenziale nella fornitura di beni e servizi; un mercato dei diritti di proprietà in cui sìa agevole il trasferimento di controllo delle imprese. E le privatizzazioni come occasione per realizzarla.
Per l’Enel, l’obiettivo concorrenza imporrebbe allora di separare le attività di generazione, trasporto e distribuzione. Facile creare condizioni per vera concorrenza nella prima, dove converrebbe trarre insegnamento dall’esperienza inglese quanto a numero delle imprese. Il trasporto ha certamente il carattere di monopolio naturale. Quanto alla distribuzione urbana e regionale, oltre alla yardstick competition, si può suscitare concorrenza in segmenti della fornitura che personalizzino il servizio, dalla bollettazione a una più innovativa offerta tariffaria.
Per Stet l’obiettivo di rendere trasparente.la competizione nel core business, evitando pratiche di sussidi incrociati, richiede la vendita separata delle attività non propriamente telefoniche (Pagine gialle, Sirti, Italtel, Finsiel). Per lo stesso motivo Tim dovrebbe essere ceduta separatamente. Nella telefonia urbana, impedito a Stet di approfittare del ritardo legislativo per mettere il Paese di fronte al fatto compiuto di un nuovo monopolio nella cablatura, si tratta di creare condizioni di mercato che rendano l’investimento interessante per capitali privati, evitando tra l’altro che siano altri capitali pubblici, nella fattispecie dei Comuni, a compensare lo svantaggio concorrenziale.
Finmeccanica: vendute separatamente le attività civili, resterebbe il settore militare, un problema risolvibile solo nel quadro di alleanze europee. Per il trasporto aereo, converrebbe valutare l’unico asset ancora rimasto, il marchio, e avere la saggezza di riconoscere che i costi di ristrutturazione previsti dall’attuale management difficilmente sono inferiori a quanto stimerebbero concorrenti privati che le ristrutturazioni, però, han dimostrato di saperle fare.
Meno semplice il problema delle banche pubbliche, soprattutto di quelle detenute da fondazioni e associazioni. Meno semplice perché all’ombra di una protettiva proprietà pubblica si sono formate vistose eccedenze di personale, e sono sopravvissute banche di dimensione assolutamente insufficiente. La prospettiva della privatizzazione può diventare lo strumento per indurre, a una ristrutturazione spontanea, una volta che si sia posto un preciso termine temporale al processo, e una volta che sia chiaro che esso si conclude con la perdita del controllo, e non solo della maggioranza azionaria, da parte delle fondazioni. So bene che questa impostazione non ha il consenso di personalità rispettabilissime, che ritengono che la ristrutturazione e fusione debbano precedere la cessione del controllo: io penso invece che, per quanto nobili siano i loro propositi, finirebbero solo per offrire argomenti al rinvio delle cessioni.
La concorrenza è solo una delle condizioni per l’efficienza: l’altra essendo la selezione del management. Si pone dunque il problema se lo Stato debba, privatizzando, prefigurare un particolare assetto proprietario, ad esempio un nucleo di azionisti che detengono una quota minoritaria del capitale, ritenuto più adatto per l’efficiente conduzione dell’impresa. Ancorché ridimensionato – le aziende minori verrebbero probabilmente acquistate da imprenditori per gestirle in proprio, come è avvenuto per Nuovo Pignone e Ilva – il problema rimarrebbe. Il problema infatti non sono le privatizzazioni, ma la struttura del nostro mercato azionario. Renderlo più efficiente agevolando il trasferimento del controllo delle imprese, dando agli investitori gli incentivi per raccogliere le informazioni atte alla supervisione dell’operato del management, rimuovendogli ostacoli normativi che rendono difficili le Scalate alle aziende, è un obiettivo che andrebbe perseguito anche se non ci fossero le aziende di Stato da privatizzare. Ed è un obiettivo al quale dovrebbero essere interessate anche forze politiche che-delle privatizzazioni in sé sono meno convinte.
Neppure il più convinto difensore della mano invisibile può ritenere infatti simili obiettivi ottenibili senza istituzioni che prevengano i fallimenti del mercato, che rendano fluida e non traumatica la transizione da un sistema pubblico a uno4li mercato. È quindi necessario potenziare normativamente l’Antitrust; completare gli organici della Consob rendendola più incisiva; modificare la legge sull’opa; istituire autorità di settore che supervisionino il sistema dei prezzi, degli incentivi e dei sussidi: la scelta delle persone chiamate alle authority dirà subito quali obiettivi il nuovo governo si prefigge.
Questa che ho descritto non è una politica popolare: va contro le élite manageriali e sindacali dei grandi complessi pubblici; gli utenti, prima di beneficiare degli aumenti di efficienza, potrebbero dover subire i riequilibri tariffari; i risparmiatori si affacceranno con cautela a mercati più dinamici; più forte di quella dei consumatori che vogliono l’aumento della produttività sarà la voce dei dipendenti che la temono. Ma un’operazione che unisca gli obiettivi macro di risanamento della finanza pubblica a quelli macro di efficienza del sistema delle imprese, avrebbe un effetto potente sulla nostra credibilità e quindi sui tassi di interesse. Sarebbe una politica di alto profilo. E se non è per questo tipo di politica, che antepone i risultati a medio termine a quelli a breve, che ragione c’è di proporsi per cinque anni alla guida del Paese?
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giugno 1, 1996