Attenti alle autocritiche frettolose
No, caro Direttore, stavolta non sono d’accordo: dissento nettamente dalla tesi di fondo del pezzo firmato da Bonaldo di sabato 17, e cioè che le privatizzazioni sostanzialmente hanno consegnato i monopoli ai privati. Elettricità, gas, acqua, poste, aviolinee, treni, difesa, TV: ma che cosa è stato privatizzato, nel senso vero, e cioè che il Tesoro ha venduto l’ultima azione, quella di carta e quella d’oro, e i suoi rappresentanti non siedono più nei consigli? Pur non di non vendere ci si è inventati pure un polo della tecnologia avanzata.
E le Fondazioni bancarie, e, quindi, le banche? E i servizi pubblici locali? E la maggior parte degli aeroporti, a incominciare dalla Sea? Certo che in Italia non c’è concorrenza, nelle utilities, nelle banche, nei mezzi di comunicazione di massa (chissà perché Bonaldo neppure li nomina): ma la colpa non è delle privatizzazioni per la semplice ragione che quelle privatizzazioni nondum natae sunt. Iniziate, alcune, nella parte iniziale della passata legislatura: in questa, andrà già bene se si riuscirà a cedere la licenza di fabbricare e vendere le Marlboro in Italia.
Un lavoro incompiuto? Magari! Al contrario, è un lavoro perversamente perfetto: perché molto più conveniente che comprare il monopolio, è occupare gli spazi che il monopolio è stato obbligato a cedere, e da quelli fare concorrenza ad aziende ancora sotto il controllo pubblico, dominanti ma inefficienti. Il modello insuperabile è Mediaset: 4400 dipendenti contro i 10.000 della RAI, un margine netto prima delle imposte del 24% sul fatturato (la media europea nel settore TV è l’8%), da public utility: certo, il fatturato cresce poco, ma lamentarsene sarebbe insultare la provvidenza.
Non è questo il caso di Telecom, checché se ne dica. Grazie alla legge Draghi e a un Governo che non ne ha impedito l’applicazione, si è avuta una privatizzazione vera, un’operazione di mercato attuata da uno che certo non appartiene ai “soliti noti”; poi l’azienda ha ancora cambiato proprietà, ed è contendibile.
Non è stato il caso di buona parte delle aziende manifatturiere, l’acciaio, il vetro, le turbine, l’automazione, come bene spiega Stefano Cingolani nel pezzo sopra quello di Bonaldo. Sono finite in mano alcune a stranieri, alcune a imprenditori del settore, qualche newcomer bravo e qualche altro meno bravo: certo, e a chi se no, alle Onlus?
Anche il più recente studio sulle privatizzazioni (Andrea Goldstein, Cesifo Working Paper 912, Aprile 2003) sottolinea l’importanza che per l’economia politica delle privatizzazioni italiane ha avuto la resistenza dei politici a perdere il controllo sulle aziende pubbliche, e che ha assunto proteiformi sembianze: salvare la grande dimensione di impresa, mantenere una proprietà italiana, paura di svendere, usare le privatizzazioni per creare public company. Quest’ultimo obbiettivo merita qualche considerazione in più, per le conseguenze che ha avuto sulla privatizzazione del sistema bancario, e sui rapporti tra Prodi e Cuccia.
Se le grandi imprese a incominciare dalle utility, che sarebbero i candidati naturali, non sono state governate come public company, non è solo perché la proprietà pubblica le isolava dal mercato. Perché si affermi la proprietà diffusa conta la presenza di leggi che tutelino i piccoli azionisti, contano i fondi pensione, la struttura del sistema bancario, la cultura finanziaria, intermediari, analisti, stampa. Come dimostra Mark Roe nel suo ultimo libro (Political Determinants of Corporate Governance, Oxford University Press, 2003), a rendere meno conveniente il modello public company sono ragioni politiche intimamente connesse alle democrazie sociali. Attendersi che modalità di vendita valgano a superare problemi strutturali, è chiaramente pretendere troppo. Privatizzare è un atto d’autorità, necessario per recuperare i decenni in cui l’attività economica è stata sottratta al mercato, ma incapace di sostituirne la capacità di selezione e di invenzione.
Che sulle privatizzazioni si sia al riflusso, è ormai evidente. Tremonti riscopre il colbertismo e ironizza sui “sacerdoti delle privatizzazioni” ( La Stampa 16 Novembre scorso), promuove protezionismo e aiuti di stato. “Per essere una Thatcher – ha detto Tommaso Padoa Schioppa – bisogna avere il coraggio di scelte impopolari: e questo manca. Per essere Colbert, bisogna avere uno stato che funzioni, e anche questo manca”. Così, sul fronte delle privatizzazioni, non succede nulla. Tocca al centrosinistra tenere ferme le ragioni del parecchio che ha fatto, e fermo lo sguardo sul molto che resta da fare.
Tweet
maggio 23, 2003