La decisione del Ministro Maurizio Gasparri di allungare la durata delle licenze UMTS
A pochi giorni dall’inizio della circolazione fisica dell’euro, Romano Prodi, in vista del vertice di Barcellona, chiede ai governi dell’unione di rilanciare il processo di liberalizzazione; e Giuseppe Tesauro raccoglie in un libro bianco le sollecitazioni dell’Antitrust contro il dirigismo strisciante delle iperregolamentazioni. Coincidenza non casuale, ma che deriva da una comune preoccupazione: il mercato unico e aperto alla concorrenza è una pietra angolare della costruzione europea, realizzarlo appieno è una delle ragioni per cui è stata introdotta la moneta unica.
In netto contrasto appaiono a questo proposito, sul piano della politica economica, la dichiarazione del Presidente del Consiglio nella sua conferenza stampa di fine anno, con cui ha praticamente chiuso la fase delle grandi privatizzazioni; e, sul piano delle regolazione, la decisione del Ministro Maurizio Gasparri di allungare la durata delle licenze UMTS da 15 a 20 anni: le cui implicazioni qui si intende analizzare.
La decisione di Gasparri non è una risposta corretta ai presunti “eccessi” registrati nei prezzi delle licenze 3G. Al contrario, essa è negativa sia per le conseguenze dirette che ne derivano, sia per le sue implicazioni di ordine generale. Le conseguenze dirette della decisione di allungare le licenze si traducono infatti in un regalo agli operatori, ovvero in potenziale denaro che dalle tasche dei cittadini passa a quelle degli azionisti di queste imprese.
Le regole dell’asta svoltasi poco più di un anno fa erano ben note e trasparenti a tutti i partecipanti. Gli operatori hanno fatto le loro offerte sulla base di quelle regole, volontariamente, tramite un meccanismo competitivo. È ovvio che gli operatori abbiano reagito con entusiasmo. Dall’oggi al domani si sono trovati nelle mani un oggetto che vale di più, e che, tra l’altro, li avvantaggia anche sul piano competitivo: infatti non è vero che la durata delle licenze sia 20 anni quasi ovunque come affermato da Gasparri: l’Olanda, il Portogallo, la Svezia e la Svizzera hanno previsto licenze di 15 anni.
Il valore della licenza aumenta per due ragioni. Una è ovvia: l’asta era per licenze UMTS della durata di 15 anni, oggi durano 5 anni in più (1/3 in più della durata iniziale). Una è più sottile ma è proprio questa a far dare un giudizio negativo sulla decisione di Gasparri. I prezzi delle licenze emersi in Europa riflettono il fatto che per fornire servizi di comunicazione mobile di terza generazione è necessario ottenere una licenza nazionale.
I vari Stati hanno deciso di mettere da parte per i servizi 3G una porzione di spettro dove possono coesistere un certo numero di operatori, da 3 a 6 a seconda dei paesi. Una volta determinata questa allocazione, la struttura di mercato è determinata per il periodo di durata della licenza. In altre parole, gli operatori hanno fatto a gara (dove la gara c’è stata) per accaparrarsi il diritto a competere in oligopoli concentrati.
Se un nuovo operatore volesse entrare in futuro, ciò sarà o impossibile o molto difficile se non trovando uno degli altri operatori disposto a vendergli la licenza, là dove ciò è consentito. La struttura di mercato è congelata dal processo di allocazione iniziale, e ciò indipendentemente dal metodo di assegnazione delle licenze, asta o beauty contest.
L’estensione poi della durata anche ai servizi TACS e GSM è inconcepibile: è un regalo di spettro che altrimenti sarebbe potuto essere messo a disposizione di potenziali nuovi entranti. L’operatore 3G che ha anche in mano le frequenze dei servizi 2G non avrà nessun interesse a rilasciare le frequenze di queste ultime sapendo che potrebbe dare vita ad un nuovo rivale. Questo è dunque il secondo regalo: il mercato dei servizi 3G è isolato da concorrenti potenziali, adesso e per i prossimi 20 anni.
La decisione di Gasparri è inoltre negativa in generale per la credibilità delle regole e delle istituzioni. Il benessere collettivo è massimizzato quando le imprese sono in concorrenza fra loro. Le imprese reagiscono a variazioni dal lato della domanda (evoluzione dei gusti dei consumatori) e dell’offerta (scoperte, innovazioni, nuovi rivali), muovendosi all’interno di un quadro istituzionale. Allo Stato o all’Autorità competente spetta definire il quadro istituzionale e far rispettare le regole. Il quadro istituzionale prevede, ad esempio, che le imprese non possano fare alcune cose. Non possono inquinare, accordarsi con danno del consumatore, mettere in atto pratiche sleali.
E nella stragrande maggioranza dei casi questo non accade proprio perché le istituzioni sono credibili e fanno rispettare le regole. Se qualcuno deviasse, verrebbe sanzionato. La discrezionalità seduce i governanti con il miraggio di soluzione più flessibili, adatte al mutare delle circostanze. Ma la discrezionalità ammazza la credibilità delle istituzioni e non aiuta il buon funzionamento di un libero mercato. Inoltre discrezionalità e arbitrio hanno confini molto labili, per cui non mai è assicurato l’interesse pubblico: è proprio questa la ragione per cui è bene legare le mani ai governanti, e delegare ad Autorità indipendenti l’attuazione delle direttive generali stabilite dal legislatore.
Non è quindi casuale che l’iniziativa del Ministro Gasparri si inserisca in una linea politica di questo Governo volta ad aumentare i poteri discrezionali dell’esecutivo e corrispondentemente a ridurre quelli delle autorità che il legislatore ha voluto indipendenti dall’esecutivo stesso.
Del ritorno all’arbitrarietà di interventi politici sul mercato si avverte del resto sentore anche nel presumibile esito della crisi di Blu. Scartata l’idea di far comprare Blu dall’operatore pubblico Wind, la soluzione attualmente all’esame del Governo, prevederebbe che le frequenze di cui Blu ha la licenza vengano spartite tra i tre operatori GSM. Così è probabile che gli altri soci riescano a uscire da Blu ricavando lo stesso prezzo del put che Berlusconi ha ottenuto da BT per la quota di sua proprietà. Col risultato che sarà stato il Governo insieme al cartello degli operatori esistenti, e non il mercato, a decretare che in Italia non può esistere un quarto operatore radiomobile, più forte, o più abile di Blu.
In conclusione, la decisione del Governo anziché fare un passo avanti verso la liberalizzazione del sistema di allocazione delle frequenze, va nella direzione esattamente opposta. Imporre numerosissimi vincoli a ciò che si può e non si può fare con una porzione dello spettro una volta che se ne è entrati in possesso, poteva andare bene nel passato quando non vi erano molti utilizzi possibili. Ma è un sistema che oggi falsa l’utilizzo dello spettro con una pianificazione dirigistica, che non consente alle imprese di usare il progresso tecnologico e usare bande alternative per entrare in quei mercati dove c’è domanda e maggiori profitti.
In paesi come la Nuova Zelanda o l’Australia si sono introdotti diritti di proprietà sullo spettro che consentono di vendere e comprare blocchi di frequenze, cambiare utilizzo e così via. Un operatore mobile può offrire, se lo ritiene conveniente, servizi televisivi e viceversa. In questo modo, ad esempio, si sono creati nuovi canali televisivi dove il pianificatore pensava che non ci fosse spazio.
Una strada simile sta emergendo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e, sembra, anche in ambito dell’Unione. In Italia esiste un piccolo mercato secondario delle frequenze solo per le radio e le TV private. E lo stesso mercato si attiverà secondo la legge 66/2001 approvata nella scorsa legislatura in vista del passaggio al digitale.
Non passa anche di qui il superamento del nodo che blocca la politica italiana, il duopolio televisivo?
gennaio 28, 2002