Ricette – Per un capitalismo moderno
Prendere sul serio l’obbiettivo di crescita sostenuta, farne non un capitolo del programma, ma il titolo di tutto il programma: questo è ciò che dobbiamo rispondere a quanti ormai ci chiedono non più cosa faremmo, ma cosa faremo. Quanto? Come? Pur nella brevità di un articolo, qualche indicazione è possibile fornirla.
Quanto sostenuta? Almeno il 2,5 % l’anno (coerente con il vincolo del 3% per il deficit). Come? La produttività nel settore industriale negli ultimi anni è scesa: farla crescere è imperativo, e non si fa dall’oggi al domani. L’occupazione è aumentata di circa l’1%, e lì dove si dovrà puntare nell’immediato. Un 1% in più vuol dire passare da 250.000 a mezzo milione tra giovani, donne, ultrasessantenni, immigrati da avviare al lavoro anno dopo anno. Basta porre il problema, e subito le soluzioni tradizionali appaiono in una luce diversa. Primo: non è un problema congiunturale, rimarrebbe lo stesso anche se riuscissimo a riportare il deficit al 2,5% e a far crescere i consumi dell’1%. Secondo: rimediare ai danni del berlusconismo ripristinando la correttezza nei rapporti tra cittadini e lo Stato, certamente aiuta, ma darà i suoi effetti tra lustri. Terzo: la redistribuzione, da lavoro autonomo a lavoro dipendente, detassare il lavoro e tassare le rendite finanziarie, risponde a ragioni di politica e a criteri di equità: ma ha influenza marginale sull’occupazione e dubbia sulla produttività. Quarto: la nostra industria è poco competitiva, tant’è vero che, al contrario di quanto avviene in Germania, la nostra quota nel commercio mondiale diminuisce: sarebbe quindi mal riposta la speranza in una crescita trainata da un ciclo mondiale positivo.
Per aumentare la produttività bisogna investire. I settori dove è più facile farla crescere sono i servizi: non quelli di pubblica utilità dove ormai i giochi sono sostanzialmente fatti, e dove la concorrenza è poca o nulla, dato che, per mantenere l’integrità delle grandi aziende, si sono vendute le posizioni dominanti. Gli altri servizi: finanziari, grande distribuzione, logistica, tempo libero, media, sanità. Anche nel settore manifatturiero sono possibili aumenti di produttività: ma in un mondo in cui tutto è copiabile, non basta puntare sul brand, bisogna conquistare economie di scala, nella produzione e nelle distribuzione. Quindi una strategia buy and build, del tipo di quella realizzata con successo da del Vecchio in Luxottica, che potrebbe riuscire a Finmeccanica, che Colaninno sta attuando in Piaggio. Per aumentare la produttività bisogna spostare risorse e persone da attività a bassa ad altre a maggiore produttività; e dato che l’obbiettivo di un aumento dell’1,5% è molto ambizioso, gli spostamenti necessari sono imponenti.
Il ruolo dello Stato è cruciale. Nell’eliminare gli ostacoli amministrativi e di regolamentazione (esempio: in un Paese dove non si possono fare sconti sui libri, un’azienda come Amazon non potrà mai sorgere). Nell’attutire i costi sociali, spostando risorse dal welfare al workfare, creando strutture che rendano possibile e conveniente per le donne entrare nel mercato del lavoro. Questo è il ruolo dello stato, non scegliere gli investimenti e men che meno gestirli: per i motivi hayeckiani di insufficienza informativa, per l’inadeguatezza delle strutture tecniche e amministrative, per i rischi di inquinamento. Gli investimenti li decidono e li fanno i privati.
Non è un problema di soldi. Le sole ricchezze finanziarie degli italiani ammontano a 1,5 volte il PIL. Di questo, oltre la metà, pari all’80% del PIL, è nelle mani di gestori professionali, assicurazioni, fondi patrimoniali, gestioni patrimoniali di banche. In un momento in cui i tassi sono bassi, e il ROE delle imprese quotate nel mondo è ai massimi, converrebbe una struttura patrimoniale in cui i debiti finanziano investimenti a rischio. Invece i gestori investono i patrimoni loro affidati prevalentemente in reddito fisso, e senza debiti. Di conseguenza, scontate le provvigioni di gestione, il patrimonio degli italiani ha un rendimento praticamente nullo. E lo stesso succederà con il TFR, dove i fondi pensione, per timore di fare peggio, mirano a mantenere il rendimento attuale: logico che siano tanti a non voler cambiare.
Chi finanzia il rischio? Non la Borsa: quale società in Italia è mai andata in Borsa a chiedere soldi per un progetto strategico? In Usa, tra la prima offerta sul mercato e il secondo giro di finanziamento il tempo medio è 2 anni: da noi infinito, mai nessuno è ritornato a chiedere capitale. La bizzarra idea di far fare ai piccoli azionisti da venture capital è giustamente fallita e il Nuovo Mercato ha chiuso. Da noi la Borsa è un metodo per vendere quote di proprietà mantenendo i benefici privati del controllo, e predisponendo una exit strategy.
Non i corporate bonds, uno strumento distrutto dalle note vicende.
Le banche, allora? Qui veniamo al nodo vero. Quando, per varie ragioni ( vincolo di bilancio, Europa, necessità di privatizzzare le PPSS…) abbiamo privatizzato le banche, nessuno ha voluto che, nel decidere gli assetti proprietari della banche, si sostituisse il mercato allo stato. La funzione del mercato è stata surrogata (usurpata?) dalle Fondazioni e dalle cooperative. E dal potere della Vigilanza, rafforzato dall’indipendenza del Governatore sancita da Maastricht, ed agevolato dalla concentrazione in pochi gruppi bancari tra i quali è stata eliminata la concorrenza. Di conseguenza – come nota Gustavo Visentini – dato che le banche universali gestiscono l’intermediazione creditizia in ogni sua forma, possiedono la Borsa, partecipano al capitale di aziende industriali, la finanza diventa una sorta di servizio pubblico, e la Vigilanza il sostituto del mercato. Nelle vicende che hanno occupato l’estate, ci siamo concentrati sulla durata in carica o anche sulla persona del Governatore: ma ad essere sbagliato è il diritto, non l’etica. Ci siamo concentrati sull’antitrust: ma è sbagliata assai più la Vigilanza, come oggi è definita. Avevamo a portata di mano la possibilità di rimediare agli errori normativi: abbiamo perseguito il sentiero irto di ostacoli verso un obbiettivo non risolutivo, anziché la strada maestra di una riforma definitiva.
L’utile delle banche italiane cresce quest’anno intorno al 15% . Invece di combattere ttra di loro per portarsi via i clienti, si integrano verticalmente per avere più prodotti da vendere agli stessi clienti. Le banche straniere comprano piccole banche regionali, per fare concorrenza al margine, e lucrare la differenza tra i nostri prezzi e i loro costi. Perché ci sia concorrenza vera bisogna che una nostra grande banca sia acquistata da una banca estera. Se le banche per prime evitano il rischio, chi vende il rischio ai clienti? Le grandi banche che hanno firmato il convertendo per 3 miliardi, hanno perso, tra minusvalenza e interessi, poco meno di 1 miliardo, senza conquistare il controllo: qual è il banchiere che ha perso il sonno? I patti di sindacato bloccano danaro in modo improduttivo a difesa di interessi o di valori che non sono quelli delle banche che vi partecipano, e dei loro azionisti: quale banchiere se ne mostra turbato?
La produttività non aumenta da sola: è il risultato di una continua tensione, di una maniacale pressione esercitata sulle aziende da chi fornisce loro i mezzi finanziari, e su questi dagli investitori a cui ha venduto il rischio. E’ quello che succede nei fondi di private equity, e questo spiega il loro successo nel ristrutturare le economie del mondo. In un Paese in cui le banche stesse si devono convertire alla cultura del rischio, sono lo strumento più adatto per operare la grande trasformazione della nostra struttura produttiva, nel manifatturiero dall’economia di nicchia all’economia di scala, e dal manifatturiero verso i servizi; e possono aumentare il rendimento della ricchezza finanziaria degli italiani.
Questo è tutto tranne che un programma di macelleria sociale. E’ il programma con cui Gordon Brown si candida a prossimo premier: possedere la propria casa, comprare azioni, costruirsi un patrimonio e avere un ruolo nel futuro del Paese. E’ il programma di un capitalismo moderno, in un Paese che vuol crescere.
Ma deve essere chiaro che non si può avere aumento di produttività e non obbligare Fiat a fare il break up delle sue varie attività, o non lasciare fallire Alitalia, o bloccare risorse per tenere in piedi i patti di sindacato: tutte cose che costano molto di più che mantenere i forestali della Sila.
Non è obbligatorio farlo, non è necessario crescere a tutti i costi, neanche per restare in Europa e nell’euro. I Paesi non falliscono mai. Si assestano su livelli di vita più bassi: si chiama declino.
ottobre 1, 2005