Un pamphlet sul futuro delle banche dopo l’abolizione del voto capitario
Perché si
Modernizzarsi e sopravvivere
di Franco Debenedetti
«Popolari, la riforma è legge», è il titolo del Sole 24 Ore del 25 marzo. E a pagina 2: «Si preparano le fusioni» «BPM perno del riassetto» «Vicenza e Veneto Banca prime a cambiare». «Le Fondazioni pronte a entrare nelle nuove SpA»: ma guarda tu, chi l’avrebbe mai detto?
Vedremo come andrà a finire. In ogni caso la reazione dimostra quanto il vincolo del voto capitario non soltanto influisse sugli assetti interni alle banche, ma anche impedisse di trovare i propri assetti nel sistema. Assetti entrambi che, a vedere la competizione che si è messa in moto per arrivare per primi ad attuarli, dovrebbero essere più efficienti. Anche il voto capitario è stato «rottamato», almeno nelle 10 Popolari di rilevanza sistemica. Non di poco conto il risultato che Renzi ha portato a casa, anche nei riguardi dei notabilati annidati nelle sedicenti banche del territorio. Politicamente il colpo al voto capitario va visto insieme al cosiddetto «atto negoziale» del 10 marzo tra il MEF e le Fondazioni: memore delle nasate che si era preso Tremonti con le sentenze della Cassazione, Renzi con le Fondazioni bancarie ha usato il pugno di ferro in tema di eccessiva concentrazione nell’allocazione del patrimonio, indifendibili dopo i disastri MPS e Carige, e il guanto di velluto in tema di partecipazione al controllo delle banche, dove evidentemente vuole evitare scossoni. Eliminare i vincoli che impediscono alle singo le banche di organizzarsi al proprio interno e di riaggregarsi sotto la pressione della concorrenza, è tanto più necessario quanto ben più radicali sono i cambiamenti che il sistema bancario tutto, non solo quello cooperativo, dovrà affrontare. Le grandi banche, soggette ai requisiti di capitale imposti dalla banking union, diventano sempre più simili a utility: regolamentazione pesantissima, prodotti standard, margini contenuti. Tutte, grandi e meno grandi, devono affrontare cambiamenti radicali, di organizzazione e di mentalità, di ruolo.
L’organizzazione. Le banche hanno speso delle fortune per informatizzare le procedure. Prima, milioni di linee di codice scritte in linguaggio Cobol. Poi, la migrazione sulla piattaforma web, prima come home banking, adesso come strumento generalizzato di interfaccia, che non solo crea un front office virtuale, ma investe tutto il back office, l’organizzazione dei dati e quella delle persone.
La mentalità. L’e-commerce ci ha abituati a comperare beni e servizi in modi semplici, rapidi, poco costosi. Con il one click di Amazon abbiamo sviluppato una mentalità diversa: le procedure che ci impongono le banche per servizi anche elementari ci appaiono di un’altra era geologica. Lo smartphone diventerà il centro finanziario personale, anche le procedure di investimento possono diventare meno complicate ed essere espletate in mobilità. Che bisogno c’è di andare in una banca, quando in un secondo posso avere caratteristiche, performance, valutazioni di migliaia di fondi nel palmo della mano? Prevale invece nelle banche la cultura burocratica, e gran parte degli investimenti vanno a mantenere la tecnologia attuale. Ma quando sarà diffuso il pagamento con lo smartphone, diventerà per le banche difficile difendere rendite tipo il Bancomat all’estero: c’è la banking union, che senso ha che esistano dei dazi sui trasferimenti di danaro all’interno dell’eurozona?
Il ruolo. Cambierà anche la prima e più importante funzione della banca, quella di fare prestiti, a individui e aziende, e la relativa competenza di assegnare il merito di credito. Big Data ha dimostrato quanti risultati si possano ricavare applicando algoritmi per lavorare sui dati. Per ora questi algoritmi, a quanto ne sappiamo, sono volti alla profilatura di noi in quanto consumatori, ma certamente verranno – vengono? – usati anche per avere informazioni quando si deve decidere un investimento, deliberare un prestito. Ci affidiamo a Big Data per individuare i terroristi prima che colpiscano, per analizzare l’andamento dell’economia di un Paese e per prevederne l’evoluzione: davvero riteniamo che faccia meglio il piccolo mondo antico della cooperazione, che operi me glio la prossimità fisica, la conoscenza personale, con vantaggio per i clienti e per le banche?
Perché no
Un modello ancora valido
di Gianfranco Fabi
Se fosse un libro giallo ci sarebbero tutti gli ingredienti, tranne uno, il vero movente. C’è infatti la vittima: le grandi banche popolari. C’è il colpevole: il Governo. C’è l’arma del delitto: il decreto legge del 20 gennaio. Ci sono i complici: il Parlamento che ha approvato la conversione in legge con solo piccole modifiche. C’è il mandante: la Banca d’Italia e, in secondo piano, la Banca centrale europea. Ci sono le motivazioni apparenti: la ricerca di una maggiore solidità del sistema bancario e di maggior credito a famiglie e imprese.
Manca quindi, almeno per ora, il vero movente. Per ora. Perché nei prossimi mesi si capirà con chiarezza chi era pronto da tempo e uscirà allo scoperto per sfruttare questo provvedimento permettendogli di conquistare posizioni di potere e di vantaggio economico.
Parliamo del decreto legge recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti approvato dal Governo il 20 gennaio, presentato alla Camera dei deputati il 24 gennaio, approvato in prima lettura il 12 marzo e convertito definitivamente in legge dal Senato, dopo che il Governo aveva posto questione di fiducia il 24 marzo, giusto sul filo di lana prima della decadenza. (…)
La riforma delle banche popolari non appare solo ingiustificata nel metodo, appare anche 1) autoritaria nella forma, con un iter parlamentare concluso in tempo solo grazie al voto di fiducia, 2) illiberale nei contenuti, perché viola l’autonomia di importanti soggetti economici; 3) ideologica nella sua filosofia, ispirata ad uno statalismo che non riconosce il valore della sussidiarietà, 4) velleitaria negli obiettivi, perché punta ad uno sviluppo del credito per istituti che hanno già fatto il loro dovere molto meglio delle altre categorie, 4) rischiosa nell’attuazione, perché lascia campo aperto all’arrivo dei fondi speculativi e di interessi estranei alle economie locali, 5) isolata nella strategia, perché nessun altro paese europeo ha imposto trasformazioni simili ed anzi i grandi paesi, come Germania e Francia, pur se in forme diverse, hanno difeso il carattere e rispettato l’autonomia delle banche popolari.
Intendiamoci. Non c’è nulla di male, anzi in qualche caso può essere anche positivo, che grandi banche nate e cresciute come popolari si trasformino volontariamente in società per azioni, magari con qualche vincolo statutario per mantenere particolari forme di rappresentanza. Quello che stona nel provvedimento voluto dal Governo è l’imposizione dall’alto, l’introduzione del tutto arbitraria di una barriera di 8 miliardi negli attivi, l’abolizione di vincoli basati sulla sana prudenza come quello di nominare gli amministratori tra i soci cooperatori. In pratica la volontà di uniformare tutte le grandi banche allo stesso modello giuridico fondato sul capitale. (…)
L’attacco alle banche popolari è un altro capitolo dell’insofferenza della politica verso le espressioni di democrazia economica e sociale. Un segno del privilegiare la logica del capitale su quella della centralità delle persone, un esempio del prevalere degli interessi tecnocratici sui valori dell’autonomia e della sussidiarietà.
maggio 20, 2015