A sentire le opinioni che incominciano a circolare e a cui Massimo Riva dà voce nel suo articolo di sabato (Se la moneta cattiva scaccia la buona, «la Repubblica» del 10 aprile) la colpa di Colaninno e soci sarebbe quella di avere traviato con il cattivo esempio Franco Bernabè e il vertice Telecom, inducendoli a seguirne l’esempio sulla «sciagurata rincorsa all’indebitamento».
Accettare che la concorrenza la sappia più lunga di noi nel trovare le strade dell’efficienza impone a volte di rinunciare alle proprie idee. Ma in questo caso sono noti i buoni risultati dei takeover USA con ricorso al debito; è un fatto che le aziende sono più efficienti quando i manager sono obbligati a lavorare con i soldi delle banche piuttosto che con quelli degli azionisti. Se Telecom non fosse sovracapitalizzata, forse oggi non saremmo a discutere di Opa. Alcuni sostengono che così debba essere per poter investire in tecnologie. Ma che fine ha fatto Italtel? E che ne hanno fatto di Finsiel? Quanti soldi buttati! Socrate, Fido, partecipazioni di minoranza dove capitava, che fecero di Stet un «high bidder loser» per il «Financial Times». Altri tempi, altri azionisti.
Gli avvenimenti di sabato imprimono uno scarto qualitativo ai temi sollevati da Massimo Riva.
Prendiamo la legge Draghi e il suo regolamento: sabato sarebbe bastato ricordare che per lo scalatore fare rilanci non è una «sconfessione», ma proprio la novità della Draghi. Ricorda Riva quante volte la invocammo all’epoca della battaglia per il Romagnolo? Ora, dopo ciò che Franco Bernabè è stato indotto dai suoi consulenti a dire, prioritario risulta difendere questa legge.
Partecipazione in assemblea: sabato potevo chiedere a Riva da dove desumesse il «preciso diritto-dovere istituzionale» di Governo e Bankitalia di andare in assemblea e perché a Telecom dovesse essere inflitto lo schiaffo di un voto negativo. Discussione ormai accademica, vista l’entità dello scarto rispetto al quorum costitutivo; che sarebbe addirittura una provocazione in bocca a chi ha fatto mancare il quorum stesso, se le indicazioni in tal senso dovessero essere confermate.
Per Riva il Governo non è stato neutrale. Ma proviamo a fare il caso contrario: che cosa deve fare un Governo che ha detto all’universo mondo che vuole uscire, anzi che è già uscito dalla telefonia, per dimostrare la sua neutralità? Vendere prima sul mercato? Deprime il titolo e favorisce lo scalatore. Vendere al nocciolo duro? Va contro gli impegni di stabilità presi dal Tesoro, e obbligherebbe il nocciolo duro a dimostrare con fatti quanto valuta oggi il titolo Telecom. Votare a favore delle proposte del consiglio? Sarebbe stato chiaramente contro lo scalatore, dunque un’altro che neutrale.
Ma adesso Riva (e io) siamo stati lasciati soli a chiedere la neuralità. Perché da sabato Telecom ha cambiato strategia: è la non neutralità quella che viene richiesta. Quando Guido Rossi accusa il Governo di essersi «castrato», di essere «passato dalla golden share alla no value share, all’azione senza valore» rivolge un invito perentorio perché la politica si appropri della questione e decida. Come, con atto politico, «l’esecutivo ha voluto il nucleo stabile», adesso, con atto politico, deve difenderlo. Oggi è ai politici e ai poteri della golden share che guardano i vertici di Telecom per risolvere la partita.
Da sabato in gioco non è più solo la sorte di Telecom, è la separazione tra politica ed economia. Sono cinquant’anni che l’Italia cerca di liberare l’economia dall’influenza della politica. Che è stata vasta, penetrante, soffocante, come in nessun Paese occidentale. Consob e Antitrust, legge Draghi, sono state conquiste tardive faticose; molte scelte sono state rese deformi dai compromessi, come nella desolante vicenda delle fondazioni bancarie. Sono state le battaglie dei Bruno Visentini, degli Eugenio Scalfari, dei Guido Rossi, è anche grazie alla loro pervicacia se alla fine certe idee sono diventate patrimonio di tutti. È grazie a loro se oggi sappiamo che la golden share è «una misura eccezionale che viola i diritti degli azionisti». E dato che «i poteri speciali non sono attribuiti allo Stato azionista ma allo Stato in sé, essi non solo scardinano dalle fondamenta i principi del nostro diritto societario, ma risultano ugualmente incompatibili con il diritto comunitario». È anche grazie a loro se si è condivisa l’idea «che la prima essenziale caratteristica della public company è quella di essere una società scalabile» e «laddove sia fissato un tetto al possesso azionario, quel tetto è una misura antiscalata posta a favore degli amministratori per evitare loro il rischio di scalate ostili». A dirlo in Senato, 21 giugno del 1994, era Guido Rossi. Altri tempi, altri azionisti? Non fa differenza, per noi.
aprile 13, 1999