Politica e società ideologie a confronto

settembre 16, 2007


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Destra e sinistra nell’era globale

«I frutti delle liberalizzazioni maturano in fretta», scrivono Alberto Alesina e Francesco Giavazzi alla fine del loro Il liberismo è di sinistra (Il Saggiatore, Milano). Una chiusa ottimista, coerente con lo stile di scrittura del libro, in cui ben si riconoscono la dispiegata chiarezza e il vigore argomentativo, cifre stilistiche dell’uno e dell’altro autore. «Ma quanto in fretta?», vien da chiedersi parafrasando uno slogan di qualche anno fa.

Perché la notorietà che pure ha acquisito l’agenda liberista arriva solo in minima parte e con enormi ritardi a tradursi in maggioranze parlamentari e in azioni di governo? Perché il liberismo, se è conveniente per la maggior parte dei cittadini, non è vincente a sinistra (e neppure a destra)?
È noto il paradosso del votante: in base a considerazioni di pura convenienza, il comportamento razionale sarebbe quello di non andare a votare. Se la partecipazione al voto è elevata, è perché prevalgono altri motivi, di fedeltà a una tradizione, di piacere nell’esprimere consenso o dissenso. Soprattutto motivi identitari, con le loro radici profonde e resistenti: il Pd raccoglie meno consensi della somma dei due partiti destinati a confluirvi; gruppi anarchici in Romagna e in Toscana, mazziniani in Aspromonte sopravvivono generazione dopo generazione. Le preferenze non godono della proprietà transitiva: dal voto possono non emergere maggioranze trasversali a schieramenti con identità politiche opposte. Alesina e Giavazzi scrivono per cercare di impedire che per motivi ideologici non si adottino misure che pure massimizzerebbero il benessere dei cittadini. Lo stesso titolo del libro può essere letto in due modi: Il liberismo è di sinistra può essere l’incitamento alla sinistra a far proprie le proposte liberiste, oppure la giustificazione per votare chi, seppure da destra, promuove politiche “oggettivamente” di sinistra.
Per contro, ci sono temi specifici che hanno valore prioritario per alcuni gruppi che proprio intorno a essi si organizzano. Per i tassisti, il blocco del numero delle licenze viene prima di qualsiasi identità politica; gli insegnanti vengono selezionati ex ante in base allo scambio tra bassa remunerazione e scarso impegno; chi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato difenderà “senza se e senza ma” l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il politico ha interesse a catturare la crisalide di un’identità, a far proprio il cemento dei gruppi d’interesse organizzati: in tal modo infatti il politico riesce a ridurre i suoi “costi” per la conquista del consenso e massimizza la propria funzione utilità. Il massimo vantaggio lo offrono temi identitari su cui egli non abbia nessuna possibilità di influire, e di cui non possa in seguito essere chiamato a rispondere: la difesa della civiltà occidentale, l’apartheid in Valtellina, le dimissioni di un centinaio di parlamentari.
«Qualcosa comincia a cambiare», scrivono Alesina e Giavazzi. Personalmente propendo per maggiore cautela. E non solo perché sono scettico sull’utilità di invitare i nostri attuali governanti a pensare più a sopravvivere nei libri di storia che ai mesi e agli anni in cui durare al potere. Vedo prospettive più preoccupanti: la crisi dei subprime viene vissuta, anche autorevolmente, non con il timore che così possa finire un lungo periodo di prosperità e crescita, ma con la malcelata soddisfazione nel constatare la precarietà di quei frutti e di poter chiedere maggiori controlli.
Tra gli “uomini di poca fede” ci saranno defezioni; potrà diventare più in salita la strada di spiegare i vantaggi delle liberalizzazioni del mercato e i prezzi che si pagano ostacolandole. Bisognerà raddoppiare gli sforzi per diffondere le consapevolezza che una scuola meno corporativa dà vantaggi a studenti e docenti, che contratti di lavoro più flessibili estendono le garanzie agli outsider senza danni per gli insider, che si può ridurre la spesa pubblica senza ridurre i servizi per i cittadini. È la mobilità sociale che si ha proprio in un mercato liberalizzato a consentire che la distribuzione della ricchezza possa cambiare: altri mezzi non hanno funzionato granché.
Il mercato non serve primariamente a calmierare i profitti delle aziende e le spese dei consumatori, bensì a scoprire nuovi modi per soddisfare preferenze vecchie e nuove. Per questo in nessun Paese dell’Occidente c’è un partito dei consumatori, e non se ne sente la mancanza. Invece in Italia abbiamo coltivato il mito dell’”alleanza dei produttori”, della centralità del lavoro, una chiusura corporativa che ha prodotto un ritardo di anni nella liberalizzazione dei mercati. Quei miti servivano una ragione politica: bloccare l’evoluzione socialista degli anni 80, per favorire invece il progetto opposto, inglobare nella maggioranza il più grande partito comunista d’Occidente. E sì che era ben poca cosa passare da Marx a Proudhon: ma in quella finestra temporale c’era la possibilità di uno snodo in direzione di un diverso sviluppo politico nel nostro Paese. Dipende anche dall’esito che ebbero quelle vicende se oggi la contrapposizione delle identità politiche, di sinistra o di destra, è così ideologicamente divisiva da prevalere perfino sulle convenienze individuali.

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