Tante erano state, nella vicenda Telecom, le preoccupazioni espresse, i pericoli prospettati, le tensioni prolungate, che si capisce il sospiro di sollievo che ha accolto un finale col sapore del déjà vu. Ma i turiboli no, quelli son proprio fuori luogo. Ora che il fumo dell’incenso si è un po’ dissipato, si può provare a trarre qualche conclusione.
Telecom Italia è diventata un’azienda non contendibile. Nessuno si metterebbe a scalarla contro l’intero sistema finanziario italiano, Mediobanca, Generali, Intesa SanPaolo, e contro le forze politiche che hanno avallato l’operazione. L’affidamento al nocciolino duro da parte di Prodi e Ciampi dieci anni fa, doveva essere, secondo lo schema teorizzato da Mario Draghi, il primo passo, la preparazione a una navigazione nel mare aperto del mercato. Con l’avvento del “noccioletto” (Orazio Carabini sul Sole24 Ore di sabato), quel processo è finito: la nave è stata insabbiata.
Telecom è diventata un’impresa che non può più contendere. Per tutti gli ex monopolisti telefonici, si aprono scenari di consolidamento e/o di convergenza. A causa della presenza di Telefonica al 43% in Telco, da quei giochi Telecom è tagliata fuori: non potrà essere né preda né predatore. Starà seduta sulla panchina di Telefonica, aspettando che l’allenatore la faccia entrare in gioco quando vorrà e nello schema che vorrà. Cesar Alierte, quando dovrà spiegare al mercato perché chiede un aumento di capitale (era già più indebitato di Telecom prima di questo nuovo esborso) potrà raccontare ai suoi azionisti che è vero che in Telco ha solo due consiglieri, ma il suo 43% è determinante nelle assemblee straordinarie della nuova scatola, ha diritti di prelazioni e di veto su cui Consob ha chiesto chiarimenti. Ma soprattutto potrà spiegare che pagando 200 milioni di sovrapprezzo, ha tolto dal gioco un concorrente, e se lo potrà giocare in ogni futura trattativa, mondiale, europea o, alla peggio, locale. Un chip modesto.
Telecom non è diventata una public company, neppure alla lontana. Proprio chi vorrebbe che questo modello si affermasse da noi, dovrebbe avere interesse a non spacciare lucciole per lanterne. Le public company si basano sulla mobilità del controllo, esercitato da fondi che cambiano alleanze per sostituire management e strategie, senza alcuna preoccupazione per i riflessi politici. Telco invece assomiglia piuttosto a una delle “macchinette” che inventava Cuccia: è un’altra scatola cinese. Che, si lascia immaginare con quanto dispiacere, non è passata per il mercato.
Se ne è parlato tanto, di scatole, e non sempre a proposito. Perché a contare sono solo le scatole quotate, le non quotate essendo una forma di contratto tra soci. È la presenza di società quotate ai vari “piani” della piramide a dar luogo ai conflitti di interesse, alle occasioni per appropriarsi dei benefici privati del controllo. Adesso dovremo contare i livelli e gli incroci di patti tra società quotate di cui è formata la nuova piramide societaria di Telecom. Se ne parla apertamente, anche da parte degli interessati. L’ingresso di Telefonica viene giustificato come contropartita per Enel-Endesa, contentino per Autostrade, aiutino a Generali, au cas échéant:bisogna pur giustificare agli azionisti di un’assicurazione perché si investe in telefoni.
Sono scomparsi i piani industriali. Ebbero un ruolo di primo piano, avevano i nomi di Murdoch, Rovati, Telefonica prima maniera, AT&T, American Movil, Openreach (qualunque cosa credesse che voleva dire chi la nominava). Anche quelli di Colaninno e Berlusconi, qualunque cosa se ne pensi, erano piani. Semplice quello di Colaninno: pay-out inferiore al 50%, nessuna dismissione, una prima linea già individuata. Ovvio quello con Mediaset. Se le banche avessero preso in casa un partner finanziario, un fondo, si poteva aspettare. Ma qui si prende in casa uno del mestiere, perché è del mestiere, e del piano non si parla più. Si passa dall’impicciarsi di cose non proprie (piano Rovati), al non occuparsi di cose che ormai sono diventate proprie. Il piano industriale è diventato un sottinteso: carta bianca. E chi ha più da scrivere, scriverà.
“I banchieri senza mandato”, secondo la definizione di Mario Monti, hanno scelto il partner tecnologico a cui consegnare i destini di Telecom, a trattativa privata. Dove sono finite le preoccupazioni per l’asset strategico del paese? I banchieri hanno deciso che in Italia non esistono imprenditori capaci di gestire un’azienda telefonica? Perché anche per loro sono “impresentabili”? Cercheranno Marchionne sotto il cavolo?
Aspetto l’obiezione: a mancare erano i soldi, e solo Telefonica ha messo 2,4 miliardi di euro. Ma questa non è una risposta, è una constatazione: questo esito è il resistibile punto di arrivo di una catena di eventi, voluti, non casuali. Gli ultimi portano la firma di questo governo, come il gonfiare il petto a proclamare la strategicità dell’azienda o l’italianità della rete. Esibizionismi muscolari miseramente finiti, il primo nel dare carta bianca a un concorrente straniero, il secondo nel facilitare ai concorrenti l’uso dell’ultimo miglio della rete che resta di Telecom.
Nei primi 4 mesi del 2007 si sono fatte 10 operazioni ciascuna di più di 10 miliardi di €. Il mercato produce sempre più idee e attira più denari di quanto si immagini, danari veri, danari propri: a patto che ci siano condizioni per sviluppare le une e remunerare gli altri. Se qualcuno obbietta che questo è quello che passa il convento, c’è da interrogarsi sull’abilità del padre priore.
Romano Prodi è il vero vincitore di questa partita. L’ha risolta nel modo consono ai suoi orientamenti, la banca a lui vicina ha una posizione di seconda fila, ma, a quanto si sa, determinante per le nomine. Eugenio Scalf ari, nel suo editoriale di domenica, riconosce questo merito a Prodi, e gli attribuisce anche la convinzione che ciò corrisponda agli interessi del Paese.
A preoccupare, è proprio questa convinzione.
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maggio 1, 2007