L’articolo di Dario Di Vico sul Corriere di domenica “Sotto i ferri del private equity: più macerie che vero sviluppo” ha dato luogo a risposte di tenore diverso, come si può leggere sulle pagine del quotidiano.
Debenedetti: Il Private Equity non ha lasciato solo macerie
Finanza predatrice, secondo Dario Di Vico, quella del private equity: in 10 anni, sotto i suoi “ferri” sarebbero uscite “più macerie che vero sviluppo”. Sotto accusa sono i buy out, cioè le operazioni con cui i fondi comprano imprese, le rendono efficienti con scelte che la proprietà non aveva capacità o volontà di prendere, e le rivendono.
Avrebbero orizzonti temporali limitati: ma il loro mestiere non è costruire conglomerati, bensì smontarli; e se in 3 anni non si riesce a produrre discontinuità, meglio passare la mano. Farebbero ricorso smodato della leva finanziaria: l’equivalenza teorica tra finanziamento in equity e in debito dimostrata da Franco Modigliani, può produrre dolori in momenti di stretta creditizia. Ma la leva media (in Italia di 1,9 volte), è poca cosa rispetto alle operazioni immobiliari a debito che hanno riempito le cronache: le banche han lavorato mesi per risolverle, un private equity mai le avrebbe fatte.
I“barbari alle porte” alla fine degli anni 80 hanno promosso la grande ripresa dell’economia americana. Da noi, Prysmian vale in Borsa più della Pirelli di cui faceva parte; Moncler é stata salvata dal fallimento; Galbani e Sisal continuano ad andare bene; Morgan Grenfell non riusciva a mettere a posto la Piaggio, ma col successivo cambio di proprietà è ritornata a casa del suo investimento, e ora l’azienda guadagna e cresce.
Nessuno ha detto che sia sempre la ricetta giusta, né che riesca a tutti, né sempre: d’altra parte nessun successo è per sempre. A Di Vico non piace il capitalismo delle grandi famiglie salvato da Cuccia. Non l’OPA alla Colaninno, che non fu private equity, perché il debito rimase in capo all’Olivetti e non alla Telecom, e l’operazione per abbatterlo, approvata dal mercato, fu bloccata da un’inchiesta della magistratura, che poi l’archiviò dopo 5 anni.
Non il private equity: ha operato, scrive. “la più grande operazione di politica industriale del nostro Paese”. Un paradosso, dato che l’”ideologia” del private equity è l’assenza di disegno, sia sulle direzioni dello sviluppo sia sui mezzi atti a perseguirlo. Ma un paradosso rivelatore: da noi “politica industriale” l’hanno fatta solo, IRI; ENI ed Efim. Che sia questa ciò di cui anche Di Vico sente la mancanza?
Tweetdal blog Generazione pro pro (a cura di Dario Di Vico) del Corriere della sera
Cuneo: «Il private equity? Tradito dagli imitatori»
Milano – Continua il «processo» al private equity, che in 10 anni in Italia ha scalato circa mille imprese, con molti esempi di finanza predatrice.
«All’inizio c’erano aziende relativamente mal gestite e i fondi hanno contribuito a farle sviluppare. Vedi i casi Panini, Seat, Riva, Ferretti, Castelgarden e molti altri», ricorda Gianfilippo Cuneo, senior partner e presidente dell’Investment Commitee di Synergo Sgr. I guai sono arrivati con l’avvento degli «imitatori, al secondo o terzo giro, illusi che lo sviluppo fosse eterno». Con un’accelerazione dei tempi naturali per ragioni non legate al business. «Come al solito gli eccessi sono accaduti nell’ultimo periodo, soprattutto dove c’è stato maggior uso di leva finanziaria. E la colpa non è solo dei fondi, ma anche delle banche che hanno concesso il credito», sottolinea. La riprova è data dal settore growth capital , dove i capitali servono a finanziare lo sviluppo. «Questo settore crea ancora valore ma rappresenta appena un 10% del totale», dice Cuneo.
Per Vito Gamberale, amministratore delegato di F2i, «la disinvolta invasione del private equity nel sistema industriale ha mortificato gli aspetti basici delle imprese, della produzione all’evoluzione tecnologica, al mercato. Oppure, nel caso dei servizi, ha fatto passare nel dimenticatoio lo standard del servizio e la sua evoluzione. Ciò è accaduto anche nel campo delle infrastrutture. Basti pensare agli aeroporti italiani, taluni dei quali passati più volte di mano in un decennio, senza registrare alcun impegno nello sviluppo».
Franco Debenedetti preferisce evidenziare gli aspetti positivi. «I barbari alle porte alla fine degli Anni 80 hanno promosso la grande ripresa dell’economia americana – sostiene –. Da noi, Prysmian vale in Borsa più della Pirelli di cui faceva parte; Moncler è stata salvata dal fallimento; Galbani e Sisal continuano ad andar bene; Morgan Grenfell non riusciva a mettere a posto la Piaggio, ma con il successivo cambio di proprietà è rientrata del suo investimento e ora l’azienda guadagna e cresce».
Forse servirebbero soltanto più regole. Prova a suggerirle Maurizio Dallocchio, docente di Finanza alla Bocconi e presidente di Dgpa Sgr. «Primo: no a una leva estrema. Il debito è il male, non un modo per generare valore: un debito giusto serve a sostenere lo sviluppo e a non far fare soldi a dei predoni. Secondo: le società di private equity devono essere compagni di sviluppo, che portano esperienza e competenza agli imprenditori. Terzo: ci vuole un’ottica di lungo periodo, 4-6 anni».
Giuliana Ferraino
dicembre 22, 2009