Due polemiche, su Telecom e su IRI 2, hanno agitato il dibattito politico dell’ultima settimana. Due polemiche accomunate da una singolarità: nessuno ne ha tratto il sia pur minimo vantaggio. Non il Governo, non la maggioranza; neppure l’opposizione. Due polemiche servite solo a diffondere a piene mani tossine che allontanano il paese da quella cultura del mercato e della concorrenza di cui ha tanto bisogno.
Il modo in cui Telecom e’ stata privatizzata e’ dipeso da un complesso gioco di pregiudiziali: la nota contrarietà del Presidente del Consiglio al break-up, l’impopolarità di un acquisto da parte di investitori esteri in caso di OPV (come ricordato dal direttore del Tesoro, Draghi), la resistenza del leader di Rifondazione Comunista, Bertinotti.
Ricordo quante volte su questo giornale io stesso segnalavo come il monopolio venisse esteso, illustravo i vantaggi del break-up del gruppo, prevedevo le conseguenze di golden share e delle limitazioni alle partecipazioni azionarie. Le influenze politiche han fatto sì che si sia persa l’occasione di creare concorrenza nei due mercati, dei prodotti e dei diritti di proprietà: ma il Tesoro e’ riuscito a vendere Telecom.
Ora alcuni esponenti del PPI, del PDS e di Rifondazione hanno notato che i maggiori azionisti industriali privati hanno comperato il controllo di Telecom con un braccio di leva che neppure il miglior Cuccia avrebbe osato tanto. Il Governo avrebbe potuto far notare che le nuove regole di corporate Governance (con la soglia per l’OPA obbligatoria aumentata al 30%) rendono attaccabile il nucleo stabile, e che la neocostituita Autorità delle Comunicazioni ha in mano uno strumento potentissimo, la tariffa di interconnessione, per fare arrivare la fresca aria della concorrenza nelle ovattate stanze dei consigli di amministrazione. D’Alema avrebbe potuto a buon diritto dimostrare che anche quando, per la vischiosità culturale dei propri alleati di governo, si privatizza male, nel sistema sono però stati messi in opera strumenti correttivi, sia dal lato del mercato del prodotto che da quello del mercato dei diritti di proprietà. Era una straordinaria occasione per impartire una lezione di “rivoluzione liberale”: e invece è sembrato accodarsi a chi puntava il dito sul principale azionista privato. Ma e’ difficile criticare per il suo acquisto chi ha comprato dal Tesoro: cioè si dice Agnelli ma si pensa Ciampi. Critica tuttavia condotta con un’arma spuntata, dato che il Tesoro ha condotto in porto la riforma Draghi ed ha avanzato le proposte Cavazzuti per adeguare alle nuove regole anche le aziende privatizzate.
Per una volta ci si poteva a buon diritto vantare di aver posto in essere le “regole”: si e’ invece tornati indietro di anni, si e’ imboccato il vicolo cieco dell’attacco ai “soliti noti”, ai “poteri forti”. Non si e’ valutato appieno quanto profonda sia stata la deformazione che l’occupazione pubblica dell’economia ha prodotto nel tessuto culturale e produttivo del paese. Abbiamo affrontato le privatizzazioni come un nuovo corso di politica economica, non come una desovietizzazione. Continuiamo a sottovalutare sia il permanere del potere di monopolio anche dopo che i mercati si sono formalmente aperti, sia il permanere di una cultura antimercato che e’ stata per mezzo secolo la cultura dominante.
Accade allora che le privatizzazioni non siano il primo atto di libertà, di affidamento al libero gioco dei venti del mercato, ma l’ultimo – l’ultimo? – atto di autorità: si prescrive chi compera, che cosa compera, chi deve gestire. La continuità che si dice di voler garantire non e’ quella dell’azienda, e’ quella del potere politico. Non contenti di aver dettato le regole, di aver distribuito le carte, di aver scelto i giocatori, se poi il gioco non si svolge come previsto, si vuol buttare all’aria il tavolo.
Un discorso analogo si può fare a proposito dell’agenzia per le aree depresse. Doveroso mettervi mano, logico razionalizzare l’esistente, lodevole il proposito di un’agenzia leggera, “cambiare e non solo gestire” come scrive il Ministro Bersani: si può sottoscrivere parola per parola la sua pacata lettera al “Corriere della Sera” del 21 Febbraio.
Ma bastano questi virtuosi propositi nel paese che ha avuto l’EGAM, l’EFIM, l’Enimont, l’IRI? Bastano nel paese che avuto la Cassa del Mezzogiorno? Bastano di fronte al legittimo scetticismo dei mercati finanziari internazionali, al severo disincanto di Bruxelles? Sono credibili quando il decreto (ritirato) iniziava con le parole ” E’ costituita l’agenzia….”?
Chi ha avuto la nostra storia, che non e’ passata, ma che ancora vive nella cultura e nella prassi amministrativa di tutte le Regioni e della maggior parte dei comuni meridionali, deve spendere una parola in piu’, se vuole essere seguito; deve segnare con maggiore nettezza la rottura con il passato, se vuole essere creduto.
Bersani sceglie l’idea ” di un soggetto autorevole e autonomo, assolutamente essenziale e focalizzato su un piano di compiti precisi”: può andar bene in Inghilterra, dubito che abbia fatto passare un brivido nella schiena a qualche -residuo- boiardo. Per Bersani l’idea fondamentale e’ quella di “trasferire nel territorio tutto quello che si può e di rispondere all’esigenza ineludibile che deriva dal processo di interazione europea”: ottimo in Olanda, da noi dubito che abbia turbato i sonni a qualche amministratore locale.
Bisogna parlare più chiaro: dire che parlando di sviluppo non si parla di soldi, ma di amministrazione; che oggi l’intervento pubblico vuol dire solo: infrastrutture, esternalità, coordinamento.
Per le infrastrutture, dove il deficit sta diventando insostenibile, esse possono nella maggior parte dei casi o essere finanziate con capitale privato, l’intervento pubblico consistendo nel definire le condizioni della concessione; o dar luogo a nuove imprese, per esempio privatizzando totalmente acquedotti ed aziende municipalizzate.
E l’intervento pubblico può al massimo servire a fare il matching con i fondi europei. Parlando di esternalita’, ovvio e giusto pensare a ordine pubblico, formazione, giustizia civile: ma il reticolo di rapporti burocratici tra centro e periferia e’ rimasto anche dopo che l’intervento pubblico si e’ prosciugato; la mentalità statalista permane anche nelle leggi che vengono emanate oggi. Se si vuole “cambiare e non solo gestire”, se si vuole fare del mercato e della competitività il proprio obbiettivo, bisogna sapere che e’ l’esistente, con la sua pretesa di continuare a gestire, il vero nemico del cambiare.
Il cammino sarà lungo, i compromessi inevitabili: come fare se le amministrazioni regionali non sanno progettare, e tanto meno sono in grado di monitorare i risultati degli interventi? Come fare a selezionare gli investimenti, per natura, per redditività, per zona geografica? Come allevare una classe dirigente? Proprio perché lo si sa bisogna fissare la rotta e farsi legare all’albero. Invece e’ parso che il futuro di cui si parla sia quello dei dipendenti delle agenzie di sviluppo.
E’ stata una settimana nera, una settimana in cui le cose buone fatte – Draghi, Autorità – o proposte – Cavazzuti, Mezzogiorno – sono state sommerse dal ritorno di vecchi argomenti statalisti ed antimercato, resuscitati e diffusi, senza apparente ragione politica. Una settimana deludente per chi crede nelle immense possibilità di questo paese, delle sue imprese, della sua gente.
febbraio 25, 1998