L’ assetto di un settore, che da un lato riguarda la più diffusa espressione del pensiero e delle opinioni, dall’altro costituisce una delle industrie forse più importante per il nostro futuro, verrà deciso in base a un sommario giudizio referendario. Mentre negli altri paesi gli assetti del settore sono la risultante di un processo cli ottimizzazione protrattosi per anni, da noi su questi temi verrà messa un pietra per mezzo di quesiti binari, dettati da esigenze di natura esclusivamente politica.
Questo è il prezzo che paga il Paese per la mancata soluzione del problema del conflitto di interessi, e non è di consolazione per nessuno che essa già sia stata esiziale per il Berlusconi uomo di governo. Berlusconi ha via via dato risposte in serie al problema, dapprima sostenendo che esistevano già sufficienti garanzie per la presenza di numerosi meccanismi di controllo; poi selezionando esperti incaricati di proporre una soluzione, di cui si persero le tracce; indi affermando di aver dato l’incarico di vendere; poi avanzando ipotesi di fusione con la Stet così maldestre da rendere poco credibili le non cristalline smentite; poi ancora chiedendo al governo di scegliere lo strumento di pagamento, contanti, titoli di Stato, o azioni; infine confermando l’offerta di Murdoch di 2,8 miliardi di dollari per la Fininvest.
Nessuna proposta seria di assetto del settore è venuta dal centrodestra in tutti questi mesi, nonostante esplicite sollecitazioni: proposte che avrebbero dato ben altro peso alle ragioni del ‘no’. Eppure dal centrosinistra alcune proposte erano venute: dapprima il proposito di por mano all’anomalia primaria, quella di una massiccia presenza pubblica accanto all’operatore privato, in un rapporto di concorrenza spuria quanto a fonti di finanziamento; il proposito cioè di smontare la Rai, riservandole una sola rete nazionale finanziata dal canone, e una rete regionale, possibile punto di aggregazione delle tante ed esangui televisioni locali, È vero che il proposito non sembra così fermo nel centrosinistra rispetto all’obiettivo di sostituire semplicemente il Cda Rai, rifacendo con segno opposto lo stesso errore fatto da Berlusconi nei primi mesi del suo governo: ma ci fu una finestra di opportunità, che andava sfruttata.
Anche la proposta Confalonieri-Veltroni è stata respinta. Lo stesso dicasi per la proposta di liberalizzazione della tv via cavo, che ha anche la valenza di dischiudere a Fininvest la strada verso altri tipi di business; mentre così, in assenza di una legge, anziché consegnare il settore degli impianti cavo alla concorrenza, lo si sta consegnando al monopolista telefonico.
I referendum, ed è questo l’errore del centrosinistra, rischiano di bloccare la situazione della tv italiana nelle sue condizioni arcaiche. La percentuale della pubblicità visiva raccolta dalle tv commerciali è in Europa il 35 per cento del totale: solo in Italia, Grecia e Portogallo è intorno al 55 per cento. I ricavi delle tv a pagamento sono cresciuti del 30 per cento negli ultimi 4 anni in Europa, ammontando lo scorso anno a circa 5′miliardi di dollari, ‘e se ne prevede la crescita al ritmo del 25 per cento l’anno per i prossimi anni. «È solo una tradizione culturale e di costume, anche se trae origine da vincoli tecnologici ormai superati, quella per cui i servizi di telecomunicazioni sono pagati dall’utente in base al consumo, mentre quelli radiotelevisivi vengono finanziati quasi esclusivamente dal canone di abbonamento e dalla pubblicità», scrive a ragione Giuliano Amato nella sua relazione annuale di presidente dell’antitrust. Ed è singolare che, proprio una parte della sinistra, dalla constatazione della convergenza dei due settori, comunicazione e telecomunicazioni, trascuri di rendere possibili uniformi criteri di pagamento delle prestazioni. È singolare che tanta attenzione venga data alla raccolta della pubblicità da parte delle tv commerciali, invece di mettere al primo posto il problema dei contenuti, della loro disponibilità e qualità.
Questione, quella della raccolta pubblicitaria, oggetto di uno specifico referendum di cui si stenta a cogliere la ratio. Sembra difficile negare o limitare a chi produce un bene il diritto di venderlo, nella fattispecie di raccogliere la pubblicità per le proprie reti. Che chi dispone di una grossa struttura promozionale svolga più economicamente questo servizio per entità minori che tua se lo possono permettere, è cosa comune a molti settori, ad esempio in quello dei libri. Ciò viene fatto in modo predatorio verso altri operatori? La questione è di pertinenza dell’autorità antitrust, senza bisogno di referendum.
Invece di concentrare tutta l’attenzione stilla pubblicità, propongo di porre al centro una diversa questione. Che i ricavi delle tv commerciali derivino dalla pubblicità, è fin banale. Ma i rapporti di forza tra concorrenti stanno a valle, nel controllo della rete di vendita, o a monte, cioè nella disponibilità del prodotto, cioè dei programmi? La pubblicità segue i contenuti, dunque la vera questione sono i contenuti.
Il successo di una rete tv (vale per l’etere, ma vale anche per il cavo) dipende dalla possibilità di assicurarsi i diritti di eventi sportivi di grande richiamo (in primis dunque il calcio) e un certo numero di film di grande successo. Il Coni e la Fige sono probabilmente più importanti di Publitalia nel determinare il successo. La Fininvest ha rapporti privilegiati con le principali major americane, la Rai con la Disney, Restano la Warner, e la Columbia, che ha un accordo con Cecchi Gori, e altre minori. I fornitori sono pochi, per assicurarsi le esclusive ci vuole abilità ma soprattutto potenza finanziaria. E tempo: poiché i contratti sono pluriennali, la possibilità di vedere un terzo concorrente affiancarsi a Fininvest e Rai in tempi ragionevoli appare assai ridimensionata.
Per questo dico che il numero di reti e le concessioni per le frequenze non sono tutto. Sotto questi contratti a lungo termine, per il calcio e per i film, che hanno decretato il successo di Murdoch e della sua BSkyB. Se dunque si pone. conte a me pare corretto, la questione dei contenuti come centrale, ecco che la conclusione Sarà che i veri limiti antimonopolio non si avranno nè tanto con il numero di concessioni – che devono essere funzione delle possibilità di offerta trasmissiva in via di vertiginosa moltiplicazione – né con i limiti pubblicitari, quanto con criteri che impediscano il monopolio dei contenuti. Faccio un esempio rozzo: visto che la Federazione calcio è pubblica, le sue decisioni in ordine alla vendita dei diritti delle partite possono risultare strumento più efficace contro i monopoli tv di ogni referendum.
Alla luce di queste considerazioni, il quesito che mira invece all’abolizione degli spot nei film può risultare addirittura controproducente ai lini che si propongono i presentatori. Gli incassi televisivi di un film trasmesso da una tv via etere (che insieme ai proventi della programmazione in sala e della vendita delle cassette, dovrebbero almeno pareggiare i suoi costi di produzione) sono dati dalla pubblicità che può ‘reggere’. Ridurla per legge, ha un’influenza negativa sul conto economico del film, percentualmente modesta per un film programmato in tutto il mondo, assai più grave per un film italiano, che conta praticamente sui soli ricavi del mercato domestico, Si tratta dunque di una misura che, ove venisse approvata, danneg-gerebbe in primo luogo l’industria cinematografica italiana, e ridurrebbe vieppiù l’offerta eli film fuori dai grandi circuiti di produzione, che potrebbe essere assai utile a un futuro terzo polo.
Il discorso dei contenuti ci riporta a considerare le ragioni sottostanti l’evoluzione dell’industria televisiva (là dove non è, come da noi, bloccata per legge): da un servizio fornito dallo Stato dietro pagamento di un canone, alla tv generalista,
alla possibilità di scegliere tra bouquets di programmi diversi a pagamento, a quella di scegliere, e pagare, i singoli prodotti che si vogliono vedere, e quando si preferisce. Alla base di questa linea evolutiva sta solo la convenienza dell’utente, frenata dall’inerzia di una «tradizione culturale e di costume», secondo quanto dice Giuliano Amato, oppure questa evoluzione è funzionale anche all’aumento quantitativo e qualitativo dell’offerta di contenuti?
La possibilità di scegliere il singolo prodotto, il singolo spettacolo, consente al mercato di segnalare le proprie preferenze in modo assai più diretto e immediato che non la scelta di un canale, dove il giudizio è espresso in forma mediata. La tv a pagamento consente una maggiore articolazione delle fonti di ricavo, consente di ottimizzare la produzione senza farla pagare tutta alla sola tv commerciale. Lo sfruttamento commerciale di un prodotto è frutto di una strategia distributiva che si svolge su un arco di tempo di oltre due anni, e che tipicamente vede per prima la distribuzione in sala, dopo” un mese il circuito della tv a pagamento sugli aerei e negli alberghi, dopo sei mesi le cassette (danno oltre il 40 per cento dei ricavi), dopo nove mesi il pay per view, dopo diciotto le tv a pagamento e infine, dopo 30 mesi, si arriva alla televisione commerciale. Una cadenza di rilasci che si presta a numerose varianti e a strategie commerciali differenziate. La tv a pagamento, cavo e satellite in combinazione tra loro, dunque agisce nel senso di potenziare le industrie che producono contenuti.
Emerge dunque un quadro un po’ diverso degli elementi chiave nella Catena di produzione del valore di un’impresa televisiva. Il rapporto con i produttori di contenuti lo è, come si è visto, sia per la tv generalista che per quella a pagamento, e i produttori sembrano essere in posizione di forza. Quanto alla commercializzazione, per la tv generalista questa si riduce alla vendita di spazi pubblicitari, mentre per la tv a pagamento consiste nell’azione di marketing per la raccolta degli abbonamenti, per la promozione di singoli spettacoli: attività assai più complessa, perché volta a individuare le preferenze mutevoli di una platea assai più vasta di clienti. Il punto di forza degli operatori di cavo e satellite è proprio il controllo del cliente: BSkyB vi dedica 1500 persone nella sola Inghilterra, con 1250 linee telefoniche. Il quadro degli elementi il cui controllo determina l’esito della competizione non sarebbe completo se non si menzionassero i sistemi di encryption, per la decodifica dei segnali da satellite o via cavo, essendo difficilmente immaginabile che un utente acquisti tanti decodificatori quanti sono gli operatori. La discussione se i decodificatori debbano essere il risultato di una normativa tecnica concordata tra tutti gli operatori, o il frutto di competizione tra sistemi tecnici diversi, se la crescita di questa industria sia favorita da standard di fatto o di diritto, se chi si è conquistato uno standard di l’atto abbia vantaggio a renderlo disponibile a tutti, è oggi assai accesa.
E ancora si potrebbe continuare. Quello che è certo, è che non sembra che su alcuno di questi elementi vi sia stato il confronto serio che occorreva, e che a giugno porremo una scheda nell’urna pensando più a un orientamento politico, che a come definire un settore che produce reddito e accresce i consumi, oltre che dare informazione e modelli culturali.
gennaio 1, 1995