Davvero la scelta di China National Chemical Corporation (Cncc) “era la migliore per la Pirelli”? Marco Tronchetti Provera, sul Corriere della Sera di martedì, non mostrava dubbi. Noi proviamo a rispondere seguendo un percorso diverso, isolando i suoi argomenti: importanti ma in qualche modo accessori.
L’accordo pone vincoli al compratore quanto a permanenza in Italia delle funzioni tecniche e strategiche. Normalmente è il compratore che, quando teme che competenze essenziali possano dileguarsi, se le assicura, con pattuizioni di solito onerose. “Cuore e testa resteranno in Italia”, enfatizza Tronchetti: ma questo è un vantaggio per l’acquirente, compreso nel prezzo. Gli impegni a più lungo termine, o convengono, e li si osserva anche se non sono nello statuto, o non convengono, e basta tagliare i budget: il “cuore” non alimenta più la “testa”, entrambi si atrofizzano, restano memorie del passato. L’attuale vertice aziendale dovrà garantire “il processo di riorganizzazione” e la costruzione “del percorso di successione”: vantaggi, per un compratore estraneo al nostro mondo, anche questi compresi nel prezzo. Aumenteranno le quantità vendute sul mercato cinese: lo stabilimento cinese di Pirelli produrrà più pneumatici di alta gamma, grazie alla maggiore “cinesità”; quelli di Cncc più pneumatici pesanti, grazie alla tecnologia Pirelli. Con conseguenze sui fatturati e, verosimilmente, anche sui margini, molto maggiori sul lato cinese.
Con questi argomenti non si riesce a sapere se l’accordo è, per Pirelli, il migliore possibile: migliore può solo essere in confronto ad altro. Secondo il Financial Times, in un settore che necessita un consolidamento, la potenza finanziaria cinese metterà sotto pressione le varie Goodyear, Michelin, Continental, Hankook. “Nei loro panni”, dice Stuart Pearson, analista di Exane Bnp Paribas, “sarei atterrito (horrified)”. Sono state cercate altre strade, sollecitate altre offerte, valutate altre combinazioni? In base a quali valutazioni è stata scartata l’opzione della scissione tra pneumatici ad alte prestazioni e quelli per veicoli pesanti, tenendo i primi e vendendo o dando in licenza i secondi? Una possibilità che il nuovo proprietario potrà, se lo crede, sempre realizzare.
Tronchetti ha ragione a qualificare di “sussulti che sanno di antico” le critiche fatte in nome di un “nazionalismo di maniera che parla in modo superficiale di politica industriale”. Verissimo che in Italia non si siano “create le condizioni per attrarre i grandi e far crescere le aziende medie”: dipende dai governi, ma non solo da loro. Quante delle scelte fatte dagli imprenditori erano volte alla crescita delle loro aziende e quante alla diversificazione dei loro patrimoni? Quanto è costata, per esempio, l’avventura in Telecom, come perdita di risorse economiche e di concentrazione imprenditoriale? A meno di ricorrere a spiegazioni sociologiche o antropologiche, sono scelte endogene alla cultura prevalente: si diversifica per ridurre i rischi derivanti da quella “politica industriale”; si acquistano beni che lo stato stesso ha venduto, confidando che saranno rispettati i diritti di proprietà. I ripetuti attacchi alla rete di Telecom (per non parlare degli espropri con destrezza subiti dai Riva) testimoniano quanto quella fiducia sia mal riposta.
È singolare che Tronchetti, per convincerci che questa soluzione è “la migliore per Pirelli”, adduca argomenti propri della politica industriale e della difesa dell’italianità che ne è pietra angolare. Non sarà “di maniera”, ma sempre “nazionalismo” è il difendere l’operazione in quanto garantisce che tecnica e strategia continueranno a essere in mano italiana. Per Pirelli, cioè per la massa dei suoi azionisti, la migliore soluzione, se di vendere si tratta, è di trarre il maggior valore dal loro investimento. Glielo garantisce questo accordo? C’era modo di spuntare per tutti loro condizioni più vantaggiose? Se ne parlerà nei prossimi tempi. L’intervista di Tronchetti non fornisce elementi in proposito.
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marzo 26, 2015