La Fabbrica di Prodi
E’ possibile che, lavorando a definire un programma di legislatura, e in particolare discutendosi di economia industriale, la parola “sindacato” non venga pronunciata neppure una volta? In un convegno del centrosinistra, poi? E’ invece quello che si è verificato la settimana scorsa, a Bologna. a Governareper, il think tank della Fabbrica del Programma. C’erano tutti, da Luigi Spaventa a Piero Giarda, da Franco Bassanini a Paolo Onofri, da Nicola Rossi a Giacomo Vaciago. E Romano Prodi, ad ascoltare e commentare le conclusioni dei vari gruppi di lavoro.
Perché? Forse perché si associa il sindacato alla grande impresa fordista, e si sa che è non è da quella che verrà la ripresa? O perché lo si associa agli scioperi nei servizi pubblici, e si è rassegnati a considerarli“atti di Dio”, calamità naturali, sperando solo in un trattamento più benevolo? Forse la domanda è ben più radicale: “A che cosa serve il sindacato?” E’ anche il titolo del libro di Pietro Ichino, presentato giovedì all’Assolombarda. E a porsela dovrebbero essere in primo luogo i sindacati.
La crescita è la strada obbligata. A chi governerà non basteranno rigore e sacrifici, la lotta all’evasione e un fisco che ridistribuisca quello che c’è. Per la crescita, soprattutto la crescita della produttività, nel settore manifatturiero si dovranno cercare economie di scala; e dovrà aumentare il peso dei servizi nel prodotto nazionale. Una gigantesca operazione di ristrutturazione del nostro apparato produttivo, milioni di persone che dovranno cambiare lavoro e forse casa, acquisire competenze nuove. Come farlo senza il contributo positivo del sindacato? Perché si formino più nuove aziende, dobbiamo rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la nascita, dunque più concorrenza nei servizi pubblici, nelle professioni: perché non anche tra contratti di lavoro e strutture di salario diverse? Invece patti in deroga a quanto stabilito dai contratti nazionali sono vietati. Rapporti di lavoro con contenuto meno assicurativo e più partecipativo non si possono fare senza il consenso unanime dei tre maggiori sindacati. Così si impedisce la sperimentazione di modelli che, ad esempio, riducano la quota di stipendio garantita in cambio di una retribuzione molto maggiore in caso di successo. E’ con queste scommesse che si mobilitano le energie e le volontà. Il sindacato, invece di perdersi dietro le chimere di una “politica industriale”, dovrebbe dedicarsi a una “politica del lavoro” che difenda il diritto dei lavoratori alla riqualificazione, al reinserimento, al sostegno del reddito, ma che consenta la libertà per imprenditori e lavoratori di adottare anche schemi contrattuali in concorrenza tra loro.
In questa legislatura, scrive Pietro Ichino, si è constatato, che “una sinistra prigioniera dei propri slogan genera una colossale rendita di posizione per una destra che ha le idee chiare sul come smontare il codice di procedura penale ma non sul come regolare in modo efficiente il sistema delle relazioni sindacali.” I nodi di fondo sono noti: rappresentanza sui luoghi di lavoro e struttura del contratto. La prospettiva di vincere le elezioni dovrebbe a indurre a tagliarli. Il centrosinistra disporrebbe di un formidabile strumento per la crescita; il sindacato avrebbe l’occasione di diventare protagonista di un moderno disegno di giustizia sociale.
La realtà non è incoraggiante: un anno e mezzo fa, Epifani lasciò il tavolo di Confidustria senza neppure iniziare a discutere, e non è successo nulla. Il contratto dei metalmeccanici, che la FIOM non ha firmato, ha solo modesti contenuti salariali. Gli scioperi nei trasporti hanno frequenza quasi settimanale. Ce n’è abbastanza per vedere desolato realismo nella omissione a Governareper. Eppure, un accordo col sindacato che lasci alle spalle i vecchi tabù è, per l’Unione, altrettanto importante che le intese tra i partiti che la compongono sui temi più controversi.
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novembre 11, 2005