Quello scontro tra “competenza” e “volontà popolare”. Il dibattito del Foglio visto da un fondatore del Pd, Salvati.
“La democrazia è un metodo di selezione delle élite”. Se non si accetta questo assunto, storicamente e scientificamente fondato, non si capisce fino in fondo la rivoluzione del sistema politico di cui Mario Monti è portatore. Non solo: senza riconoscere che quello è l’assunto di partenza, non si spiega la vistosa ritrosia di ampi spezzoni della classe dirigente italiana all’idea di sostenere l’ex presidente della Bocconi che ha fatto arretrare il paese dall’orlo del precipizio finanziario. E’ quanto sostiene Michele Salvati, docente di Economia politica all’Università di Milano, direttore della storica rivista il Mulino ed editorialista del Corriere della Sera.
Salvati è uno che non ha esitato a schierarsi, seppure attraverso i toni pacati e i ragionamenti distesi che si addicono a un editoriale del Mulino (come quello scritto nell’ottobre 2012 e poi chiosato sul primo numero della rivista del 2013). “Al di là di molte affermazioni analiticamente sostenibili contenute in questo articolo – scriveva allora Salvati, che oggi al Foglio dice di pensarla ancora allo stesso modo – concludo con una tesi politica di cui sono convinto, ma sulla quale c’è disaccordo nel comitato direttivo di questa rivista: che la prosecuzione dopo le elezioni di un governo Monti potrebbe ancora fare bene al nostro paese”. Montiano atipico, Salvati, lo è anche per il fatto di essere uno dei “padri fondatori” del Pd, con il suo “Appello per il Partito democratico. I riformisti con i riformisti” che questo giornale pubblicò nell’aprile 2003, quattro anni prima dell’effettiva fondazione del nuovo partito: “Non ce l’ho con Pier Luigi Bersani – dice – al massimo con chi nei 15 anni prima di lui non ha raccolto certe sfide e non ha educato il proprio elettorato a raccoglierle. Così ci troviamo davanti al solito destino che caratterizzò già il Pci, quello del ritardo rispetto alla propria fase storica: erano comunisti quando la sinistra europea era socialdemocratica, sono in larga parte socialdemocratici oggi quando altrove le grandi conquiste della socialdemocrazia sono state raggiunte e il problema è piuttosto quello di difenderne in modo innovativo lo spirito e la sostanza in una fase storica molto più sfavorevole. Oggi il Pd sarebbe dovuto essere pienamente liberal-democratico e ‘rawlsiano’ come base culturale”. Escludendo una destra troppo pendente verso il “populismo”, ecco perché Monti appare il più adatto ad affrontare quelle sfide che Salvati ritiene dirimenti: rendere “più efficiente e meno oneroso” il sistema che fornisce servizi pubblici, stimolare “una maggiore produttività nel settore privato”, riformare il welfare nel senso dell’equità, rivedere “procedure, regole e rapporti di lavoro da cui è disciplinata l’intera Pubblica amministrazione, sia quella centrale sia quella periferica”. “Soprattutto, Monti è il miglior negoziatore che abbiamo da mandare in Europa”.
Salvati tuttavia riconosce che in molti diffidano, più che delle specifiche proposte riformatrici contenute nell’Agenda Monti, dell’idea stessa di democrazia che l’ex commissario Ue incarna e che Monti ha illustrato pure nella veste di “saggista” in un libro scritto assieme all’europarlamentare francese Sylvie Goulard, “La democrazia in Europa”, edito da Rizzoli. “Democrazia a trazione elitaria”, l’abbiamo definita sul Foglio sulla base di quanto scritto da Monti durante la sua permanenza a Palazzo Chigi, e dopo aver scavato tra i riferimenti intellettuali di queste riflessioni, spaziando dall’elitismo dei federalisti americani al sincretismo del giornalista e politologo americano Nathan Gardels (teorico della necessaria “depoliticizzazione” delle democrazie occidentali). L’economista chiarisce subito d’essere d’accordo con quanto sostenuto da Monti e Goulard: “La democrazia è un modo elettorale di scegliere le élite. Il risultato è un’oligarchia selezionata prevalentemente con il metodo elettorale”. E se rispetto all’Europa Monti è il “candidato meno peggiore” proprio per la sua indiscussa capacità negoziale dimostrata a Bruxelles, “rispetto al fronte interno il suo atout è sicuramente il discorso portato avanti sulla necessaria competenze delle élite”. Il problema è “antichissimo”, soprattutto se lo chiedi a uno studioso come Salvati che sul tema si cimenta da anni. “L’ambizione di identificare senza possibili obiezioni, in via generale e in ogni circostanza, una ‘valentior et sanior pars’, una élite politica adeguata – diceva nel 2009 in un suo intervento all’Università di Trento – è una ambizione che non è possibile soddisfare. Si tratta però di una ambizione inevitabile e legittima: la maggioranza non è di per sé un criterio normativamente difendibile. Anche se la decisione a maggioranza sembra discendere per conseguenza dal principio democratico di eguaglianza dei diritti politici (una testa, un voto), resta tutto da dimostrare che la ‘maior pars’ sia in grado di scegliere le persone più adatte al governo o identificare le leggi migliori o le decisioni più opportune”.
Anche Salvati, però, riconosce che la nuova enfasi sulla necessaria riforma dei nostri sistemi politici, in senso elitario e meritocratico, non è casuale: “Occorre tenere conto che le nostre democrazie nazionali decidono sempre più su una piccola parte di quanto avviene nel loro territorio. Gli effetti del buon governo dipendono anche dalle circostanze internazionali. Perciò il mito rousseauviano della ‘volontà generale’ offre una base strutturale di legittimità ai nostri sistemi politici, ma non basta. Le élite sono necessarie e devono essere quanto più competenti possibile, dunque, per offrire visioni di lungo periodo e sottrarre alla partigianeria certi temi”. L’economista cita, sottoscrivendola, un’analisi classica come quella di Giovanni Sartori: “Se la democrazia è, descrittivamente, una poliarchia elettiva, come dovrebbe essere prescrittivamente? Rispondo: dovrebbe essere una poliarchia selettiva, intendendo che la ‘buona’ democrazia dovrebbe essere una meritocrazia elettiva”.
Salvati risponde anche ai dubbi di quanti imputano al presidente del Consiglio uscente la volontà di pensionare la distinzione tra “destra” e “sinistra”, come fa per esempio Franco Debenedetti nel suo libro “Il peccato del professor Monti” (Marsilio). Che le due categorie vadano superate, effettivamente, Monti lo va ripetendo pubblicamente da tempo: per lui la divisione dev’essere piuttosto tra riformatori e conservatori, o tra europeisti e nazionalisti, o tra evasori e non evasori. Non è un caso – aggiungerebbe Gardels – che Monti anche plasticamente in questo momento chieda consensi su un’agenda e non su un’appartenenza ideologica. Il ragionamento di Salvati parte ancora una volta dalla centralità delle élite: “La lotta politica finalizzata a scegliere la classe dirigente è molto più utile della lotta politica il cui obiettivo è far vincere o far perdere una parte”. Poi, pur riconoscendo che la distinzione destra/sinistra rimarrà a lungo l’asse principale del conflitto democratico, spiega che “relativizzare” quest’asse è legittimo e perfino auspicabile. Per tre motivi. Primo, visto che “lo spazio di decisione dei capi di governo delle democrazie nazionali è sempre più limitato, di conseguenza le costrizioni internazionali inducono i partiti a orientamenti molto simili al di là dello schieramento ideologico di appartenenza”. La sinistra di Tony Blair che per esempio è tornata a vincere nel Regno Unito dopo il predominio conservatore iniziato negli anni 70, ha accettato “la sostanza degli orientamenti liberisti ormai prevalenti a livello internazionale”. Secondo: una certa “visione pedagogica” rispetto a fattori quasi antropologici – come la corruzione e la delinquenza — che frenano lo sviluppo italiano, dovrebbe accomunare destra e sinistra. “Faccio spesso l’esempio di Singapore che, 40 anni fa, era tra i paesi più corrotti al mondo e aveva un reddito pro capite di circa 2.000 dollari. Oggi il paese si è arricchito e, nelle classifiche di percezione della corruzione, è ai livelli dei paesi scandinavi più virtuosi. Il tutto in un regime autocratico, altro che destra e sinistra”. Per dirla altrimenti: “Sono d’accordo con Goulard, qui ci accapigliamo su destra e sinistra – e a questo proposito mi ha sorpreso la recente esaltazione del ‘caldo’ delle passioni compiuta dall’amico Debenedetti – ma ridurre il debito è di destra o di sinistra?”. Terzo e ultimo motivo per depotenziare il conflitto destra/sinistra: “Spesso è difficile valutare le ricette di politica economica per i loro effetti di medio-lungo termine, si pensi alla riforma del mercato del lavoro propugnata da Pietro Ichino, figurarsi disquisire sul loro essere di destra o di sinistra”.
Sia inteso: i problemi di distribuzione del reddito o di pari opportunità non scompariranno dall’oggi al domani, destra e sinistra quindi torneranno ancora utili. Ma la schizzinosità delle attuali élite italiane di fronte alla proposta politica incarnata da Monti continua a impressionare Salvati. Alcuni, come l’editorialista del Corriere della Sera Antonio Polito, dicono che Monti si sarebbe dovuto mettere alla guida di uno schieramento conservatore: “Sarà vero, ma oggi l’unica scelta possibile era il centro, essendo la destra occupata da Silvio Berlusconi e Roberto Maroni, cioè dalla destra populista”. Fatto sta che in molti, di fatto, scaricano un esponente dell’establishment europeo che pure ha dimostrato in poco più di un anno di approvare riforme decisive come quella delle pensioni e di toccare temi tabù come l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? “Torna ancora una volta a farsi viva la debolezza organica delle élite non politiche italiane. Le classi dirigenti intellettuali, economiche, commerciali e industriali sembrano ancora una volta ritirarsi nel loro mestiere. Emerge la loro cronica propensione a stare a vedere chi vince, per poi chiedere concessioni e quattrini”. Ma finché non saremo in grado di “scegliere da noi le élite giuste”, ci dovremo accontentare di vincoli e regole “a volte anche stupidi” che vengono imposti dall’esterno, conclude Salvati facendo riferimento al Fiscal compact e alle variegate regole della governance economica dell’Unione europea che condizionano sempre più la nostra politica fiscale. “Finché questo vincolo esterno terrà”.
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febbraio 12, 2013