Perchè è possibile rinunciare al nucleare

marzo 21, 2011


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di Mario Pirani

Ho sempre avuto grandissima stima ed affetto per Umberto Veronesi come uomo e come Maestro delle scienze medico-chirurgiche. La sua competenza oncologica rende altresì, sotto questo aspetto, prezioso il contributo che potrà dare all’ Agenzia della sicurezza nucleare che è chiamato a presiedere. Ma, mentre apprezzo la conclusione del suo articolo ( Repubblica del 19 marzo) circa l’ opportunità di una moratoria per dar tempoa un ripensamento, nutro forti dubbi sulla sua affermazione secondo cui sarebbe «scientificamente vero che senza l’energia nucleare il nostro pianeta, con tutti i suoi abitanti, non sopravviverà, per cui non dobbiamo fare marcia indietro, ma andare avanti, ancora più in là con la conoscenza». Temo che questa convinzione non poggi allo stato dei fatti su basi solide.

Oggi resta purtroppo incontestabile che nessuno è ancora in grado di valutare quali possono essere nel tempo e nello spazio i danni di una catastrofe nucleare. È una non misurabilità che si accompagna alla constatazione che non esistono finora difese preventive (ancor meno per i depositi del materiale fissile consumato) tali da garantire il 100% di sicurezza o di avvicinarvisi. Il Giappone, seconda potenza economicae tecnologica del mondo, sta lì a provarlo. Vi è piuttosto una propensione prometeica allo sviluppo insostenibile, alla sua sovrapposizione ai valori del progresso umano e, soprattutto, una preminenza del profitto e dell’ iper consumo che alimenta teorie e principi culturalmente inquinanti. Non dovremmo dimenticare in proposito che l’atomica nacque e si sviluppò come una tecnologia totalmente controllata dallo Stato e addirittura dalla forze armate. I sistemi di controllo iniziali e i criteri di spesa ne furono grandemente influenzati. L’uso pacifico spostò via via l’ epicentro economico e gestionale nel settore privato pur con forti sovvenzioni e facilitazioni. Anche la sorveglianza delle centrali passò nelle mani delle società elettriche perlopiù private. Di qui l’attenuarsi dei controlli, il rinvio delle revisioni indispensabili, le menzogne e le mancate risposte agli enti esterni pubblici preposti alla sorveglianza, la diffusione dell’ ideologia sull’ineluttabilità del nucleare. Rinvio ad un’altra volta la discussione sulle fonti rinnovabili. Vorrei solo ricordare una cosa elementare che sembra dimenticata: le fonti primarie sono nell’ordine petrolio, metano, carbone, acqua, rinnovabilie nucleare. Quest’ultimo copre solo il 5% del totale. Le fonti secondarie sono l’energia elettrica (30%), la termica (39,4), carburanti (22,2) altri usi e perdite (7,98). Il nucleare serve solo per l’elettricità di cui oggi copre il 14,6. Per arrivare al 20% bisognerebbe tra l’altro affrontare costi cresciuti in maniera esponenziale (secondo calcoli dell’ Mit del 15% annuo). Ma il problema è un altro. Come sostiene Confindustra in un suo rapporto, non l’atomo ma “l’efficienza energetica è il pilastro portante dell’energia verde”. Un piano che orientasse strutturalmente la produzione su beni ad alta efficienza energetica e su consumi virtuosi vedrebbe coinvolte 400.000 aziende e tre milioni di occupati, soprattutto nel settore dei trasporti, dell’edilizia, della illuminazione, delle caldaie, degli elettrodomestici. Basti dire che nel settore industriale si verificano oggi sprechi per il 20% dell’energia che potrebbe essere risparmiato se si usassero motori più efficienti. Diversamente dagli incentivi per il nucleare e anche per le fonti alternative, l’efficienza energetica riduce i costi in bolletta. Si avrebbe inoltre una forte riduzione di CO2. L’Enea ha, infine, stimato in 73 TWh l’ energia elettrica che attraverso l’efficienza può essere risparmiata da qui al 2020, corrispondente alla produzione di 7 grandi centrali nucleari della taglia ipotizzata dal nostro governo (1.300 MW). In altre parole: il risparmio energetico è a portata di mano e implica solo capacità di governo e iniziativa imprenditoriale. Elimina il pericolo nucleare e alimenta lo sviluppo economico.

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di Franco Debenedetti – La Repubblica, 22 gennaio 2011

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