Perchè difendo le fondazioni bancarie

luglio 23, 2012


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di Vittorio Grilli

Caro Direttore, sul giornale di martedì scorso i professori Boeri e Guiso mi hanno indirizzato una lettera aperta, e mi hanno rivolto alcune domande sulle fondazioni bancarie, prendendo spunto da una mia valutazione positiva sul loro operato, espressa durante un recente seminario, e da uno studio sulle fondazioni, pubblicato da Mediobanca lo scorso maggio. Itemi toccati sono di sicuro interesse e attualità e non intendo quindi sottrarmi alla discussione. Boeri e Guiso mi chiedono anzitutto su quali basi io abbia espresso il mio giudizio positivo sull’operato delle fondazioni bancarie.

Nella consapevolezza di quanto sia rischioso proporre un bilancio mentre i processi storici sono in corso, e di quanto lo sia, in particolar modo, durante un periodo anomalo quale è quello che stiamo attraversando dal 2008, provo a indicare quelli che per me sono i tratti salienti che caratterizzano la vicenda delle fondazioni, dalla loro istituzione ad oggi: a. Le fondazioni hanno portato avanti il processo di aggregazione e ristrutturazione di buona parte del settore bancario italiano. Quando furono istituite, nel 1990, a ciascuna delle 89 fondazioni bancarie corrispondeva una banca. Oggi, quelle 89 banche sono riconducibili a 28 gruppi bancari. Se non consideriamo le 12 fondazioni di piccole dimensioni che hanno mantenuto il controllo dell’azienda bancaria nella sua configurazione originaria, possiamo dire che in circa 18 anni 77 piccole e medie banche sono state ricondotte a 16 gruppi bancari di medie e grandi dimensioni, con quel che ne consegue in termini di economie di scala, razionalizzazione dei costi e miglioramento dell’offerta di servizi. Alcuni dei gruppi che sono stati creati hanno le dimensioni necessarie a sostenere la concorrenza nel mercato globale, e questo probabilmente era quasi impensabile nel 1990. Altri grandi Paesi europei, come la Germania e la Spagna, non sono ancora riusciti a compiere una ristrutturazione analoga del loro settore bancario. In Italia, non ci sono purtroppo numerosi altri esempi di adeguamento delle dimensioni aziendali al contesto competitivo internazionale, radicalmente mutato nel giro di pochi anni. La decisione di ristrutturare il settore bancario è stata politica, e non è stata presa dalle fondazioni, che la legge ha prima incentivato, dal 1994, e poi obbligato, dal 1999, a cedere le banche (ricordo che fino al 1994 erano invece obbligate a mantenere il controllo). Ma resta che il modo in cui il progetto politico doveva essere realizzato non è stato deciso dal legislatore, ma dalle fondazioni, che hanno concordato le aggregazioni, perfezionato le operazioni di cessione e selezionato, secondo logiche privatistiche, il management incaricato di gestire la modernizzazione.
b. In questi 22 anni, le fondazioni sono state, per le loro banche, degli azionisti stabili. L’ottica dell’investimento nelle bancheè stata, nei fatti, di lungo periodo. Si potrà discutere se questa sia stata una decisione di investimento saggia (così come si potrebbe discutere se il momento adatto a valutare la bontà di un investimento di lungo periodo in una banca sia l’apice di una gravissima e interminabile crisi finanziaria). Resta che il management delle banche non è stato chiamato a rendere conto sulla base del risultato dell’ultimo trimestre finanziario, con le logiche di breve e brevissimo periodo che hanno caratterizzato altri modelli industriali, e che sono tra le principali cause della crisi. Credo che il modo in cui le fondazioni bancarie hanno interpretato il loro ruolo di azionisti abbia contribuito in misura sostanziale a mantenere le banche italiane ancorate al modello della banca commerciale, che raccoglie depositi e finanzia famiglie e imprese. Non è questo modello che ha originato la crisi, e a sua volta la crisi ha evidenziato che questo modello, nel lungo periodo, è molto più solido di altri.
c. Le fondazioni hanno assunto la responsabilità di essere azionisti di lungo periodo delle banche, anche quando non ne erano più gli azionisti di controllo. Anche le banche italiane, pur con la loro maggiore solidità, hanno avuto bisogno di nuove risorse finanziarie, a causa della seconda fase della crisi, quella del debito sovrano. Le fondazioni non hanno fatto mancare il loro sostegno, neanche quando questo è stato chiesto in una situazione con mercati del capitale quasi chiusi, prospettive incerte e rischi elevati. Se il contribuente italiano è stato chiamato a finanziare le banche solo in misura minima rispetto ai contribuenti degli altri Paesi europei, è perché le banche italiane hanno avuto bisogno di minori risorse e perché una parte importante di queste risorse è venuta dalle fondazioni.
d. Non mi addentro in una disamina dell’attività istituzionale delle fondazioni bancarie, che ha un’articolazione di complessità corrispondente a quella del tessuto sociale in cui esse operano. Mi limito a ricordare che in dieci anni, dal 2001 al 2010, le fondazioni hanno erogato più di 14 miliardi di euro. Il primo settore di intervento è sempre stato quello dell’arte e dei beni culturali, che sono forse il bene patrimoniale più importante del Paese. Anche la ricerca scientifica, che è fondamentale per l’aumento del nostro potenziale di crescita, è storicamente tra i primi settori di intervento. Le attività sociali delle fondazioni sono spesso state fatte in sostituzione e rimpiazzo di interventi pubblici che sono venuti a mancare, soprattutto per esigenze di contenimento della spesa. Certo, in alcuni casi le attività delle fondazioni potrebbero essere svolte in modo più efficiente, ma il quadro complessivo non mi sembra allarmante: nel 2010 il costo del personale ha assorbito poco più del 3% del totale dei proventi, e il complesso dei costi di gestione l’11% circa. Le analisi di efficienza dovrebbero comunque tenere conto della notevole differenziazione dimensionale delle fondazioni: le fondazioni maggiori hanno un patrimonio, e conseguentemente proventi, anche centinaia di volte più grande di quello delle fondazioni più piccole.
Ci sono sicuramente altri aspetti da considerare nella vicenda delle fondazioni bancarie, e sicuramente tra questi ce ne sono alcuni anche controversi. Ad esempio, ricordo che la legge, dal 1999, ha introdotto un limite al numero dei mandati che i membri degli organi possono svolgere.
A breve scadrà il mandato di numerosi esponenti che non potranno essere rinnovati. Indipendentemente dalle scadenze di legge, credo che le fondazioni avrebbero potuto promuovere un maggiore ricambio della loro classe dirigente.
Ma, ripeto, gli elementi che ho indicato sopra mi sembrano quelli più importanti, nel percorso che va dal 1990 ad oggi, e mi portano a confermare il mio giudizio complessivo sull’operato delle fondazioni, che resta positivo. Con la seconda domanda, Boeri e Guiso mi chiedono se io non ritenga utile richiamare le fondazioni a una stretta diversificazione dei loro impieghi, con conseguente forte diluizione delle partecipazioni nelle banche. Il ministero dell’Economia e delle Finanze, dal 1999 ad oggi, ha richiamato continuativamente le fondazioni bancarie all’esigenza di aumentare la diversificazione del patrimonio. Lo ha fatto nella consapevolezza di confrontarsi con il complesso processo di ristrutturazione del settore bancario di cui ho detto sopra: non si è trattato di diversificare un portafoglio finanziario qualunque, ma di ridurre dal 100% del totale la componente rappresentata dalle azioni della banca. Con una rappresentazione sintetica e rozza, ma spero efficace, potrei dire che il processo di diversificazione del portafoglio delle fondazioni bancarie consiste nella cessione di tutte le azioni della gran parte del settore bancario italiano, con l’emersione di nuovi azionisti di riferimento, possibilmente valorizzando il premio per il controllo ed evitando di mettere a repentaglio la stabilità del settore. Si può discutere dei tempi che un processo di questo genere dovrebbe ragionevolmente prendere. Ma a me sembra che il processo si sia già compiuto per buona partee sia pienamente in corso, secondo un’evoluzione che definirei ineluttabile. In alcuni casi le fondazioni hanno opposto resistenza, mostrando poca lungimiranza e una lettura non lucida delle trasformazioni in corso. Il caso più eclatante e sotto gli occhi di tutti è quello di Siena, dove la fondazione ha optato per un’interpretazione formalista dell’obbligo di perdere il controllo della banca e non ha adeguatamente diversificato il rischio. Questa scelta non si rivela adesso favorevole per la fondazione stessa, la banca, e la città.
Oggi, comunque, le partecipazioni nelle banche rappresentano il 40% circa del patrimonio delle fondazioni. Da un’agevole ricognizione degli azionisti di riferimento delle maggiori banche italiane, delle dimensioni delle quote partecipative, della capitalizzazione di borsa, e, in definitiva, del grado di contendibilità, si dovrebbe ragionevolmente concludere che sarebbe azzardato sostenere che le banche italiane siano saldamente controllate dalle fondazioni bancarie. La crisi finanziaria ha accelerato i cambiamenti, ma, come ho detto, credo che questi esiti fossero inevitabili, una volta avviato il processo. Infine, Boeri e Guiso mi domandano se io possa pensare di usare il patrimonio delle fondazioni per abbattere lo stock del debito pubblico. Le fondazioni bancarie sono soggetti di diritto privato, come stabilito anche dalla Corte costituzionale. L’operazione suggerita, tecnicamente, sarebbe una confisca. Fortunatamente non siamo nelle condizioni di dover sospendere le garanzie costituzionali a tutela del diritto di proprietà.

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