Caro Direttore,
la “battaglia per le nomine degli amministratori delle maggiori società italiane a partecipazione pubblica” è finita, scrive Luigi Zanda, “esattamente come con i governi di coalizione del passato: ogni partito si è preso la sua fetta”. Ha certo ragione quando accusa l’evidente diseconomia di avere due azionisti, la CDP e il MEF, alla guida di un gruppo di grandi aziende, anziché affidare questo compito a una holding di Stato: sarebbe questa “la lezione del’IRI”.
Sicuro? La storia narra una lezione diversa: nel 1992 tra IRI, Eni ed Efim, (cioè tra DC, PSI e PSDI) avevano accumulato debiti per 30.000 miliardi di Lire, che con la trasformazione in Spa di cui lo Stato era l’unico azionista, sarebbero diventati debito dello Stato. Senza l’accordo Andreatta Van Miert quello che secondo Zanda era in “gruppo compatto a servizio dellla politica industriale del Paese” ne avrebbe provocato il fallimento.
“Senza una testa industriale che sappia coordinare l’azione delle partecipate è impossibile promuovere un strategia” complessiva. In realtà questa strategia l’aveva definita la DC con la la relazione di Rumor al congresso del 1949: programmazione economica finalizzata “al maggiore assorbimento di mano d’opera”. E 64 anni dopo Giorgia Meloni teme ancora che i “tanti fenomeni che hanno a che fare con la modernità” comportino che ”all’aumento della produzione non corrisponda aumento dell’occupazione.” Altra costante è l’intervento dello Stato nel Mezzogiorno: nel 1962 il doppio vincolo, che il 60% dei nuovi investimenti e il 40% del loro totale dovesse essere allocato nel Mezzogiorno, comportò la decisone di costruire un nuovo centro siderurgico a Taranto, “che tanti danni condusse agli Achei”. Una situazione non poi così diversa dall’attuale vincolo sui fondi PNRR al Sud.
Se le aziende partecipate non sono gestite in modo coordinato è perché esse operano nel mercato e competono con aziende terze. Dato che non sono monopolisti nei rispettivi mercati (lo vieterebbe l’Europa) il coordinamento, altrimenti noto come collusione, sarebbe dannoso: o la missione pubblica va a scapito dei risultati di esercizio o va a scapito di altre aziende che non godono del favore della politica, o entrambe le cose.
Sarebbe interessante se Luigi Zanda volesse precisare in che modo “l’apporto dell’IRI ai governi del boom” abbia determinato “le condizioni di base della ricostruzione e della modernizzazione dell’Italia”. Il miracolo economico verrebbe dunque dall’infrastrutturazione e dall’industria pesante spronata e sussidiata dallo Stato? L’una cosa e l’altra le abbiamo avute, per la verità, anche dopo. Ma non abbiamo più avuto il boom. Non sarà che il miracolo qualcosa debba a ciò che non era Stato, alla generazione spontanea di imprese private fuori e lontano dali interessi della grande impresa pubblica, non cioè nell’industria pesante ma in quel mondo “casa e bottega” che è poi diventato la galassia del “made in Italy”?
Il successo dell’Autostrada del Sole dimostra quanto sia necessaria le presenza dello Stato nella costruzione delle grandi infrastrutture nazionali; la direttissima Roma Firenze, rimasta isolato prototipo europeo dell’Alta Velocità, dimostra quanto sia insufficiente . L’”attacco al suolo” alla rete di cavi coassiali da parte della Stet, timorosa di perdere il monopolio nella trasmissione dei segnali televisivi, dimostra quanto questa presenza possa essere deleteria.
Il ”controllo di un consistente patrimonio industriale da parte dello Stato”, secondo Zanda può avere senso solo “se la sua missione pubblica va oltre i risultati d’esercizio delle singole imprese”. Che si tratti di imprese a controllo pubblico o privato, strategia è una parola insieme salvifica e ingannatoria: ma se è già difficile individuare la strategia di una singola azienda, quale intelligenza sarà necessaria per “tenere insieme un patrimonio molto variegato trasformandolo in un gruppo compatto a servizio della politica industriale del Paese?”
Obbiezioni rilevanti, ma che pure non vanno al punto centrale: l’intrinseco, inevitabile conflitto di interessi nelle imprese controllate dallo Stato ma con partecipazione di azionisti privati. Questi hanno un solo interesse, l’incremento di valore della propria partecipazione. Accanto a questo, l’azionista pubblico ha un interesse prevalente, il potere politico che deriva dal controllo: usa il danaro degli azionisti privati per il proprio potere di controllo.
di Luigi Zanda – La Repubblica, 19 aprile 2023 Caro Direttore, da un punto di vista politico, la battaglia per le nomine degli amministratori delle maggiori società italiane a partecipazione pubblica è andata come si poteva prevedere. Doveva servire a misurare la forza dei partiti della maggioranza e il peso della leadership della presidente del Consiglio. Così è stato ed è finita esattamente come con i governi di coalizione del passato: ogni partito si è preso la sua fetta. Purtroppo, però, nel tira e molla che ha preceduto le scelte del governo, non è stato mai sfiorato il tema della guida, della “testa”, di un patrimonio societario così vasto. E, cioè, se e come le società a controllo pubblico debbano sentirsi parte di una unica squadra e fare “gruppo”. In una parola, siamo certi che mantenere, per ragioni extra industriali, l’azionariato di queste società suddiviso tra il ministero dell’Economia (Mef) e la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sia la soluzione migliore? Non c’è da valutare solo l’evidente diseconomia della presenza di due azionisti, ma anche se il ministero e la Cassa posseggono l’esperienza e le professionalità necessarie. La questione non è di poco conto. La politica industriale delle aziende il cui capitale è controllato dallo Stato dipende dagli indirizzi del governo. Questo è fuori discussione. Ma è meno facile individuare “come” il governo possa esercitare al meglio i suoi poteri di azionista. La guida di un gruppo di grandi aziende non è una funzione solo amministrativa o finanziaria. Non è compito di un ministero, né di una banca. Le preoccupazioni per il mantenimento degli impegni presi dall’Italia con il Pnrr, confermano quanta professionalità e capacità manageriale servano per la “messa a terra” dei progetti governativi. Nel trentennio del miracolo economico questo compito era affidato a una holding industriale, l’Iri, che aveva la responsabilità di tenere insieme un patrimonio azionario molto variegato, trasformandolo in un “gruppo” compatto a servizio della politica industriale del Paese. In quel tempo, senza l’apporto dell’Iri i governi del boom non avrebbero mai potuto determinare le condizioni di base della ricostruzione e della modernizzazione dell’Italia. Disporre di un parco tanto vasto di partecipazioni può essere per lo Stato uno straordinario strumento di politica industriale. Ma senza una “testa” industriale che sappia coordinare l’azione delle partecipate, è impossibile promuovere una strategia in grado di “mettere a sistema” società ben amministrate e con oggetti sociali molto diversi. Il dibattito delle ultime settimane ha dato l’impressione che una volta raggiunto l’accordo tra i partiti di maggioranza sulla nomina degli amministratori, il governo italiano abbia considerato esaurito il senso della presenza dello Stato nell’economia. Non una parola sul funzionamento di un sistema visibilmente scollegato. Negli ultimi tempi l’azionariato pubblico ha raggiunto dimensioni simili a quelle del dopoguerra. Dopo le privatizzazioni di trent’anni fa, allo Stato è rimasto il controllo di grandi aziende strategiche come Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri, Ferrovie dello Stato, Poste Italiane, Rai, Enav e Terna. Poi, tra acquisizioni e salvataggi, il comparto pubblico si è di ulteriormente ingrandito col controllo di Autostrade, dell’ex Alitalia, di Mps, della Popolare di Bari, della galassia di Invitalia, sino al “quasi” controllo dell’ex Finsider di Taranto e all’interesse di Cdp per la rete Tim. Lasciamo ad altro momento la valutazione degli effetti sul mercato di questa oggettiva dilatazione della presenza dello Stato. C’è solo da dire, senza scomodare Keynes, che in tutte le grandi crisi sono sempre necessari investimenti pubblici. Il controllo di un consistente patrimonio industriale da parte dello Stato può aver senso solo se la sua missione pubblicava oltre i risultati d’esercizio delle singole imprese. Se non si tratta solo di valorizzare le potenzialità di ciascuna impresa, se c’è la volontà di cogliere i vantaggi di una gestione coordinata delle partecipate, allora questo compito non può essere affidato né a una nuova direzione del Mef, né alla Cdp. Perché la loro natura, la loro missione e le loro esperienze sono molto diverse. Molto meglio una nuova holding, controllata dallo Stato attraverso il Mef. Una holding che, per managerialità e professionalità, sia in grado di dare attuazione agli indirizzi politici dell’azionista governo. Non si tratta di rifare l’Iri, la cui formula di Ente di gestione non è al passo con i tempi. Si tratta di prendere atto che la guida dell’insieme delle partecipazioni dello Stato non può prescindere da un nuovo assetto della loro “testa” industriale. L’azione dello Stato, se ben indirizzata, può determinare come nel dopoguerra un salto in avanti dell’intero sistema industriale italiano. Più collaborazione con l’industria privata, più autorevolezza nei mercati internazionali, più Pil, più produttività, più lavoro. La realizzazione di un obiettivo tanto ambizioso dev’essere lineare. I ruoli del Mef e della Cdp sono una cosa. La gestione industriale delle partecipazioni pubbliche è un’altra cosa. Uno Stato saggio sa rispettare la distinzione dei ruoli. Un solo postscriptum. L’azionista dell’Eni dev’essere, direttamente o indirettamente, la presidenza del Consiglio. Dalla nascita della Repubblica, per evidenti ragioni geopolitiche, il presidente del Consiglio ha sempre esercitato personalmente le funzioni di indirizzo sull’Eni. Sarebbe corretto se questa condizione potesse proseguire.
La lezione dell’Iri
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