“È dagli anni ’80 che lo Stato si sente dire che deve mettersi sul sedile posteriore e lasciare il volante in mano alle imprese, lasciarle libere di creare ricchezza, intervenendo solo per risolvere i problemi quando emergono”. Così Mariana Mazzucato su Repubblica.
È da sette anni che la professoressa ci vuole convincere che Internet non l’hanno fatto migliaia di imprese e milioni di inventori, ma un organismo della difesa americana per avere un sistema comunicazione a prova di bombe; oppure che lo schermo touch è frutto dello stato imprenditore perché chi lo ha inventato stava studiando grazie a una borsa di studio pubblica.
Il suo strabismo non le consente di vedere che il PIL mondiale “dagli anni 80” è cresciuto 5 volte, che la quarta rivoluzione industriale e la seconda globalizzazione hanno tratto dalla miseria estrema più di un miliardo di esseri umani, di constatare che oggi “Capitalism, Alone!”: come dice Branko Milanovic, ci sono solo il capitalismo liberale-meritocratico in Occidente, e il capitalismo politico in Cina e dintorni.
La pandemia le offre l’occasione di aggiornarsi: “il risultato [di aver messo lo stato sul sedile posteriore] è che i governi non sempre sono preparati e aggiornati per gestire crisi come il Covid-19 o l’emergenza climatica”. Come se, per stare a casa nostra, la sanità non fosse quasi totalmente pubblica, e là dove funziona meglio è dove ai privati è consentito di operare in concorrenza con lo Stato. Come se, per guardare agli USA, la sanità, carente quanto a copertura di tutta la popolazione, non abbia una ricerca medica unica al mondo per dimensione di settore, varietà di imprese, eccellenza di risultati. Quanto all’emergenza climatica (le è irresistibile non tirarla in ballo), sono i governi che non riescono a trovare un accordo; al contrario ammontano a diverse migliaia di miliardi di $ le risorse raccolte dai fondi ESG e Impact, che l’industria finanziaria ha creato per rispondere al desiderio di chi vuole che i propri risparmi vengano investiti in aziende che adottano politiche sociali e di protezione dell’ambiente.
Facile per tutti criticare risultati positivi perché non lo sono abbastanza (la Mazzucato in questo non ha bisogno di incoraggiamenti): difficile per alcuni (lei per prima) riconoscere, perfino in questa circostanza, l’incapacità dei governi a fare, e l’irresistibile pulsione a impedire che altri facciano. Parla di ventilatori e di mascherine: queste mancano dappertutto, 3 miliardi (sic) in USA, secondo il ministero della salute; mentre 3M e di Honeywell si sforzano di incrementare la produzione, un gruppo di 15 tecnologi cercano di avviare una loro iniziativa, senza le “sovvenzioni pubbliche” (si immagina, dato che per farle non ci vuole rocket science). Ma il governo, secondo quanto scrive il settimanale Reason, chiede 90 giorni per dare il via libera all’iniziativa. In Spagna, riferisce ABC, tutte le regioni, indipendentemente dal loro colore politico, lamentano l’inefficienza e i ritardi del modello di acquisizioni centralizzato (sarà il loro Consip?) e accusano la mancanza di esperienza del governo.
Fin qui déjà vu. Mazzucato disconosce il funzionamento del mercato, il sistema dei prezzi per segnalare di carenze e abbondanze, le prospettive di rischi e di guadagni a far da motori di investimenti e innovazioni, in tal modo riuscendo in quello che non è mai riuscito a un sistema di economia centralizzata, per mancanza di informazioni e per distorsione politica degli incentivi: su questo ha scritto un libro di successo. È quando parla del dopo che i suoi propositi diventano pericolosi.
Dopo la disruption della pandemia, le aziende dovranno tutte, più o meno, modificare il loro modello di business; avranno bisogno di compensare le differenze tra costi tuttora correnti e ricavi svaniti, e sostenere i costi per riavviare la produzione e ricostruire i rapporti commerciali con i clienti. Solo le banche centrali e le istituzioni comunitarie o federali possono supplire fondi per evitare che l’illiquidità si traduca in insolvenza; sarà compito dei governi applicare criteri perché essi non siano l’equivalente per l’industria di quello che il “reddito di cittadinanza” voleva essere per i disagiati. I governi avranno “il coltello dalla parte del manico”, scrive la Mazzucato: è vero, e purtroppo non è la sola a pensare che questa sia un’occasione da non perdere. È quindi necessario iniziare subito a radunare le forze per scongiurare un evento che farebbe al Paese più danni della pandemia. Il “capitalismo liberale-meritocratico” richiede che il governo impieghi gli strumenti che gli sono propri: il coltello non è tra questi. Se del caso, la democrazia è nata proprio per impedire che ne faccia uso.
Come cambierà il capitalismo
di Mariana Mazzucato – La Repubblica, 24 marzo 2020
Il mondo è in uno stato critico. La pandemia di Covid-19 si sta diffondendo rapidamente in tutti i Paesi, con un’estensione e una gravità che non si vedevano dai tempi della devastante influenza spagnola del 1918. Se non si riuscirà ad adottare misure di contenimento coordinate a livello globale, il contagio ben presto diventerà anche un contagio economico e finanziario.
Le proporzioni della crisi sono tali da rendere indispensabile l’intervento degli Stati. E gli Stati stanno intervenendo. Stanno iniettando stimoli nell’economia e al contempo stanno cercando disperatamente di rallentare il diffondersi della malattia, di proteggere le popolazioni vulnerabili e di contribuire a creare nuove terapie e vaccini. Le dimensioni e l’intensità di questi interventi ricordano un conflitto militare: e questa è effettivamente una guerra, contro la diffusione del virus e il collasso economico.
Però c’è un problema. L’intervento di cui c’è bisogno necessita di un’impostazione molto diversa da quella che hanno scelto i governi. È dagli anni Ottanta che lo Stato si sente dire che deve mettersi sul sedile posteriore e lasciare il volante in mano alle imprese, lasciarle libere di creare ricchezza, intervenendo solo per risolvere i problemi quando emergono. Il risultato è che i governi non sempre sono preparati e attrezzati per gestire crisi come il Covid-19 o l’emergenza climatica. Se si parte dal presupposto che i governi devono aspettare che si verifichi uno shock sistemico enorme prima di decidersi ad agire, è inevitabile che si finisca per non predisporre preparativi adeguati.
In questo processo, istituzioni fondamentali che forniscono servizi pubblici e più in generale beni pubblici, come il Servizio sanitario nazionale nel Regno Unito (dove dal 2015 a oggi sono stati operati tagli complessivamente per 1 miliardo di sterline), ne escono indebolite.
Il ruolo preponderante dell’impresa privata nella vita pubblica ha determinato anche una perdita di fiducia in quello che lo Stato è in grado di realizzare da solo, e questo a sua volta ha prodotto molti partenariati pubblico-privato discutibili, che privilegiano gli interessi dell’impresa privata rispetto al bene pubblico. Per esempio, è largamente documentato che i partenariati pubblico-privato nel campo della ricerca e sviluppo spesso favoriscono i blockbuster, a spese di medicine meno appetibili commercialmente ma di enorme importanza per la salute pubblica, come gli antibiotici e i vaccini per una serie di malattie potenzialmente epidemiche.
In aggiunta a tutto questo, c’è una carenza di tutele sociali per i lavoratori in un contesto di crescita della disuguaglianza, soprattutto i lavoratori della gig economy, privi di qualsiasi protezione sociale.
Ma ora abbiamo l’opportunità di usare questa crisi come modo per capire come fare capitalismo in modo diverso. Bisogna ripensare lo scopo dei governi: invece di limitarsi a correggere i fallimenti del mercato quando emergono, dovrebbero cominciare a impegnarsi attivamente per plasmare e creare mercati capaci di produrre una crescita sostenibile e inclusiva. Dovrebbero anche assicurarsi che i partenariati con imprese private che coinvolgono fondi pubblici siano orientati all’interesse pubblico, non al profitto.
Prima di tutto, i governi devono investire, e in alcuni casi creare, istituzioni che contribuiscano a prevenire le crisi e ci mettano nelle condizioni di gestirle meglio quando insorgono. Lo stanziamento straordinario di 12 miliardi di sterline per il Servizio sanitario nazionale deciso dal governo britannico è una mossa benvenuta, ma è altrettanto importante focalizzarsi su investimenti a lungo termine per rafforzare i sistemi sanitari, invertendo le tendenze degli ultimi anni.
In secondo luogo, i governi devono coordinare meglio le attività di ricerca e sviluppo, orientandole verso obbiettivi di salute pubblica. Per scoprire vaccini servirà un coordinamento internazionale di proporzioni erculee, esemplificato dallo straordinario lavoro della Cepi (Coalizione per le innovazioni in materia di preparazione alle epidemie).
Ma i governi nazionali hanno anche il dovere enorme di plasmare i mercati orientando l’innovazione alla risoluzione di obbiettivi pubblici, come hanno fatto in passato organizzazioni pubbliche ambiziose quali la Darpa (Agenzia per progetti di ricerca avanzati per la difesa) negli Stati Uniti, che finanziò quella che poi sarebbe diventata internet mentre era impegnata a risolvere il problema di come far comunicare i satelliti. Un’iniziativa simile in campo sanitario assicurerebbe che i fondi pubblici siano indirizzati alla soluzione di importanti problemi di salute pubblica.
In terzo luogo, i governi devono strutturare i partenariati pubblico-privato in modo da assicurare che ne beneficino sia i cittadini che l’economia. La salute è un settore che riceve miliardi di fondi pubblici, in tutto il mondo: negli Stati Uniti, l’Istituto nazionale di sanità (Nih) investe 40 miliardi di dollari l’anno. Dall’epidemia di Sars del 2002, il Nih ha speso 700 milioni di dollari per la ricerca e sviluppo sul coronavirus. La grande quantità di fondi pubblici destinata all’innovazione in campo sanitario implica che gli Stati dovrebbero governare il processo per garantire che i prezzi siano equi, che non si abusi dei brevetti, che l’offerta di medicine sia salvaguardata e che i profitti vengano reinvestiti in innovazione, invece di essere distribuiti agli azionisti.
E dovrebbero garantire anche che se c’è bisogno di forniture di emergenza, come medicine, letti d’ospedale, mascherine o ventilatori, le stesse aziende che quando le cose vanno bene beneficiano di sovvenzioni pubbliche non devono speculare e applicare sovraccarichi folli nel momento in cui le cose vanno male. L’accesso alle cure mediche per tutti e a prezzi abbordabili è essenziale non solo a livello nazionale, ma anche a livello internazionale. È particolarmente importante nel caso delle pandemie: non c’è posto per atteggiamenti nazionalistici, come il tentativo di Donald Trump di acquisire in esclusiva per gli Stati Uniti una licenza per il vaccino contro il coronavirus.
In quarto luogo, è tempo di imparare finalmente le dure lezioni della crisi finanziaria mondiale del 2008. Con le aziende private, dalle linee aeree alle società di commercio al dettaglio, che bussano alle porte dei governi per chiedere salvataggi e altri tipi di assistenza, è importante resistere alla tentazione di limitarsi a elargire denaro. I sussidi possono essere accompagnati da condizioni che garantiscano che i salvataggi siano strutturati in modo tale da trasformare i settori che stanno salvando, perché possano diventare parte di una nuova economia, un’economia focalizzata sulla strategia del Green New Deal: ridurre le emissioni di anidride carbonica e al tempo stesso investire sui lavoratori e assicurarsi che siano in grado di adattarsi alle nuove tecnologie. Dev’essere fatto ora, fintanto che i governi hanno il coltello dalla parte del manico.
Il Covid-19 è un evento di grande portata, che mette a nudo la mancanza di preparazione e resilienza di un’economia sempre più globalizzata e interconnessa, e di certo non sarà l’ultimo. Ma possiamo usare questo momento per mettere al centro del capitalismo l’approccio dello stakeholder. Non lasciamo che questa crisi vada sprecata.
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