Mente, comunicazione e algoritmi. Come cambiano norme e valori, su cui si giocano sfide legali ed economiche.
Una “storia critica” delle grandi piattaforme del web e delle relazioni sociali nella cultura della connettività
Sono dei monopoli; sono troppo grossi, guadagnano vendendo i nostri dati; non pagano tasse; minacciano la democrazia; alterano le personalità: i social media sono sotto il tiro incrociato di politici e sociologhi. Eppure i social media, intesi come il gruppo di applicazioni basate su Internet, hanno formato la struttura online sulla quale la gente organizza le proprie vite. Originariamente ad attirare gli utenti fu il desiderio di essere connessi; la crescente richiesta di connettibilità attirò le imprese, interessate a fornire connettività. In pochi anni si passa da una cultura della partecipazione a una “cultura della connettività”: è questo il quadro concettuale in cui José Van Dijck inserisce la sua “storia critica dei social media” (The Culture of Connectivity, Oxford University Press)passaggio ineludibile se si vuol capire le tensioni nell’ecosistema in cui operano le grandi piattaforme e gruppi sterminati di persone. Anzi connective media invece di social media: perché l’essere social è il risultato di un input umano che diventa output digitale e viceversa, in un costrutto sociotecnologico di cui è difficile separare i componenti.
La storia inizia nei primi anni Settanta: i computer e le tecnologie dell’informazione godevano della dubbia reputazione di essere strumento di controllo di governi orwelliani o delle multinazionali. La controcultura della fine degli anni Sessanta univa valori di comunità e collettività con quelli di libertà e potere personali, in aperto contrasto con l’oppressione associata alla tecnologica informatica. Questa solo alla fine degli anni Settanta inizia a essere vista come strumento di potenziale liberazione; nel 1984 l’utente di Macintosh fa parte della controcultura; nel 1991 il
World Wide Web dà nuovo impulso ai legami tra cultura informatica e controcultura: il geek ribelle che lavora nell’interesse del pubblico e non per Big Money o Big Government è il precursore della prossima cultura del Web 2.0. Mettendo “you” come persona dell’anno (2006), Time proclama il potere rivoluzionario degli utenti connessi. Quattro anni dopo, uomo dell’anno è Mark Zuckerberg: promette di voler fare un mondo più aperto e più trasparente; le aziende adottano retoriche che allineano l’ethos benevolo delle prime tecnologie con il proprio ethos aziendale. Facebook “vuole che la gente trovi quello che vuole, la vuole connettere online alle idee che gli piacciono”; il mantra di Google è “do no evil”. Ma i social media sono inevitabilmente sistemi automatici che realizzano e manipolano le connessioni. Social è sia la connettibilità (umana) sia la connettività (automatizzata). Le aziende enfatizzano la prima e minimizzano la seconda, in realtà rendono tecniche le relazioni sociali e manipolabili le attività delle persone. Nel contesto dei social media la parola “amici” indica sia contatti intimi sia estranei totali; il nome follower connota gruppi sia di indifferenti neutrali sia di ammiratori: dipende da quanti rilanciano i vostri tweet. Anche i like non sono giudizi di valore attribuiti a persone, cose o idee, ma il risultato di un calcolo algoritmico di click istantanei su un pulsante.
Dal 2000 al 2005 le piattaforme prosperano con l’entusiasmo degli utenti, spazi alternativi, liberi dai vincoli di aziende e governi. Quando il numero degli utenti esplode, gli investimenti necessari diventano troppo grandi, le piattaforme si fanno aziende, e va perduto lo spirito di produzione autonoma non di mercato. Negli anni seguenti, dal 2005 al 2008, la cultura venture capital della Silicon Valley spinge per la crescita del fatturato con l’obbiettivo di andare al più presto in Borsa; la retorica accademica esalta il nuovo spazio pubblico di una collaborazione non di mercato; le piattaforme, in particolare Google ed Amazon, scoprono le uova d’oro che le loro galline producono, i dati e profili comportamentali che gli utenti forniscono sovente senza volerlo. Internet è prima di tutto un mercato e poi un nuovo spazio pubblico: i proprietari delle piattaforme vanno cauti nel dichiarare alle comunità degli utenti i loro obbiettivi di guadagno, e mantengono la retorica di una nuova sfera pubblica, fusione tra principi no profit e di mercato, in cui sopravvive lo spirito del collettivismo.
Da un lato dunque utenti entusiasti delle nuove potenzialità del Web 2.0, e scienziati sociali per cui i social media sono un interessante esperimento di fusione delle sfere privata e pubblica. E dall’altra lato due tipi di detrattori: quelli per cui questo è un esperimento fallito di partecipazione democratica, perché le piattaforme commerciali hanno barattato la perdita della privacy con l’accumulazione di capitale sociale; e quelli per cui gli utenti sono doppiamente sfruttati, come lavoratori che forniscono i contenuti e come consumatori che sono obbligati a ricomprarsi i propri dati elaborati dalla piattaforme, perdendo la privacy.
Norme e tecnologia: una coevoluzione
Van Dijck non si propone di discutere di privacy o di mercificazione in sé. Il focus del suo libro è migliorare la comprensione storica dell’effetto dei social media sulla vita quotidiana, comprendere la coevoluzione delle piattaforme dei social media, e delle relazioni sociali nella cultura della connettività, esporre come cambiano le norme e i valori su cui si giocano queste sfide legali ed economiche, nonché le strutture tecnologiche, ideologiche, socioeconomiche di questa scommessa. Privacy e commercializzazione sono emblematiche di una più ampia battaglia per il controllo dell’informazione privata e pubblica. In generale: in che modo le varie piattaforme infiltrano le abitudini comunicative e creative, che potere hanno utenti e aziende di foggiare relazioni sociali online? In meno di un decennio le norme dei rapporti sociali online sono cambiate drasticamente, e continuano a cambiare; le norme per condividere informazioni private e per accettare pubblicità personalizzate nel proprio spazio sociale erano molto differenti nel 2005, negli stadi iniziali del Web 2.0, o nel 2012. Sono questi cambiamenti a cui Van Dijck è interessato.
La cultura della connettività è dominata dalle tecnologie di codificazione. Nello spazio online, le relazioni sociali non sono rese semplicemente tecnologiche; al contrario le strutture codificate alterano profondamente la natura delle nostre connessioni, creazioni, interazioni. I pulsanti che ci impongono di share o di follow come valori sociali, hanno effetti sulle pratiche culturali come sulle dispute legali. E’ una cultura dove l’organizzazione degli scambi sociali si fonda sui principi delle economie neoliberali: la connettività deriva da una pressione continua, degli utenti e delle tecnologie, a espandersi attraverso la concorrenza e a guadagnare potere attraverso alleanze strategiche.
Le tattiche delle piattaforme, ad esempio il meccanismo del ranking, sono radicate in una cultura che esalta la gerarchia, la competizione, la mentalità del winner-takes-all, e la richiesta dei proprietari di piattaforme di maggiore trasparenza e apertura in un’agenda neoliberale, sovente accompagnate dalla richiesta di una riduzione del settore pubblico.
Microsistemi ed ecosistema
Per comprendere l’evoluzione delle relazioni sociali online non basta studiare le singole piattaforme: bisogna capirne la coevoluzione, considerando le singole piattaforme come microsistemi nell’ecosistema dei connective media.
Quando Steve Jobs introduce iTunes nel gennaio 2001 pensa a qualcosa di più che un software che faccia di un computer un hub digitale; con l’iPod, otto mesi dopo, nasce un nuovo modo di ascoltare musica registrata. Con l’insieme di hardware e software Apple crea una nuova forma culturale, la prima dopo il long playing: poiché favorisce le compilazioni personali, la modalità di ascolto preferita diventa il singolo brano. Lo sviluppo della tecnologia – hw, sw, design – produce una trasformazione dell’industria musicale: è nato un nuovo modello di business.
L’esempio dimostra come lo sviluppo di nuove tecnologie sia inseparabile dall’emergere di modi di uso. Se Apple non avesse adottato un nuovo business model, quello di un negozio digitale, iTunes e iPad sarebbero stati un fallimento. Mentre sviluppa la sua tecnologia, Apple innesca un cambiamento delle condizioni legali ed economiche della produzione e distribuzione di musica, con effetti su altri mezzi connettivi, l’editoria, la televisione, le news.
Per comprendere come le piattaforme si sono sviluppate indipendentemente, come sono diventate forze centrali nella costruzione delle relazioni sociali, bisogna esaminare da entomologo le strutture delle singole piattaforme, individuare somiglianze e differenze nel loro modo di operare, e come aziende e utenti hanno plasmato e sono stati plasmati da questa costruzione.
Per farlo, Van Dijck si dota di uno strumento “anatomico”: si tratta di smontare dapprima ogni piattaforma, nel suo doppio livello di costrutto tecno-culturale e di struttura socio-economica, e analizzare le componenti costitutive di ogni livello: tecnologie, utenti, contenuti per il livello tecno-culturale, forme proprietarie, di governance, di modelli di business per quello quello socio-economico. Alla fine si dovrà ricomporre l’ecosistema per riconoscere le norme e i meccanismi che consentono la costruzione di relazioni sociali. Ma è a quel livello di dettaglio, a cui brevemente si accenna, che si trovano le differenze tra le piattaforme.
Tecnologie. Le piattaforme forniscono il sw che codifica le attività sociali in linguaggio di computer e viceversa traducono il linguaggio del computer in azioni sociali: la famosa frase di Amazon “chi ha comperato questo oggetto ha anche acquistato…” è il risultato automatico di algoritmi che aggregano milioni di dati e guidano il comportamento degli utenti. Nel loro insieme formano una sorta di “inconscio tecnologico”, modellano l’esperienza culturale di chi usa le piattaforme dei social media.
Utenti. Le relazioni sociali online sono sempre più coproduzione di umani e di macchine. Quando piattaforme nate come comunità di utenti cambiano tipo di proprietà, strategie di monetizzazione, termini d’uso, questi reagiscono cambiando le impostazioni di default, oppure hackerando il sito, o cambiando piattaforma: le “risposte” degli utenti dimostrano come le piattaforme coevolvono con i rapporti sociali nel contesto di una crescente connettività.
Contenuti. Tra il 2000 e il 2005 i siti basati su Ugt (User Generated Content) – YouTube, Flikr, Myspace – lanciano la produzione e distribuzione di contenuti multimodali. Utenti e proprietari hanno entrambi interesse a che nelle arterie dell’ecosistema circolino “buoni contenuti”, ma poi i loro interessi divergono. Gli utenti preferiscono formati multipli, le piattaforme li vogliono uniformi. Facebook limita la lunghezza dei video caricati, Twitter a 280 caratteri, Linkedin impone il formato del curriculum. Un certo grado di standardizzazione facilita la connettibilità – aiuta gli utenti a trovare il contenuto – ma aumenta anche la connettività – gli algoritmi elaborano meglio se l’input è uniforme.
Proprietà. La proprietà di una piattaforma è un elemento costitutivo del suo modo di funzionare come mezzo di produzione. Esso è cambiato nel tempo passando dal non profit alla proprietà collettiva, a organizzazione di utenti for profit, a imprese globali, a società quotata. Nuove start-up nascono tutti i giorni, e quelle di successo vengono comperate. Google persegue l’integrazione verticale di motori di ricerca che garantiscano un maggiore controllo sulla user experience. Facebok fa partnership – con il sito di streaming musicale Spotify, con il servizio di chat Skype – per assicurarne la continuità.
Governance di protocolli. I sistemi di controllo dei contenuti consistono di protocolli tecnici e sociali, per gestire le attività degli utenti, la End User Licence Agreement (Eula) e i Terms of Service (Tos), relazione contrattuale che si stabilisce ogni volta che un utente si connette a una piattaforma. Riguardano campi come diritti di proprietà, privacy e sanzioni; sono regolate dalla legge, ma non sono essi stessi legge; il loro controllo è nelle mani dei proprietari, gli utenti si accorgono dei cambiamenti attraverso cambiamenti della user interface.
Business model. L’industria culturale aveva vissuto sulla produzione di massa di beni standard, vendendo o beni riprodotti o abbonamenti a programmi o pubblicità inserita in contenuti culturali. Col web 2.0 i prodotti diventano virtuali e il download non rientra nella idea convenzionale di prodotto. Le sottoscrizioni fanno a pugni con una cultura basata sulla partecipazione degli utenti e abituati alla gratuità dei contenuti e dei servizi.. L’economia dell’attenzione della tv commerciale , pure essa basata sulla gratuità, non si applica a un mondo popolato da “amici”. La pubblicità di massa è spiazzata degli annunci mirati che compaiono sul lato dello schermo, e questi dalla raccomandazione personale di un “amico” di un “influencer”: la cultura della pubblicità diventa cultura della raccomandazione.
Connettere piattaforme, ricomporre i rapporti sociali
L’interoperabilità nell’ecosistema. si realizza sia sul piano tecnologico – per esempio la presenza di pulsanti di Twitter in piattaforme concorrenti – sia su quello socioeconomico, come concorrenza e collaborazione. Lo scambio reciproco di dati, oppure codici mutualmente escludentesi, hanno influenza sui canali di distribuzione, determinano quali contenuti sono accessibili da chi.
Codici di computer e o modelli di business riconfigurano le norme sociali; e le norme sociali di converso modificano come operano le reti. Le piattaforme progettano connettibilità e connettività codificando e dando il loro marchio alle attività sociali, ma questi processi non lasciano intatto nessuno degli agenti coinvolti: utenti e proprietari del 2013 non sono identici a quelli del 2006 o del 2002, i modelli di business e i contenuti si sono trasformati insieme alle politiche di governance e alle interfacce.
Lezioni di anatomia
Armato del suo strumento, van Dijck lo applica a cinque piattaforme, che smonta nelle loro componenti e poi ricompone nel contesto del loro ambiente comune e della cultura della connettività in cui sono cresciute.
• Facebook e l’imperativo dello sharing.
• Twitter e il paradosso dei follower.
• Flickr tra comunità e commercio.
• YouTube, l’intima connessione tra televisione e condivisione dei video.
• Wikipedia e il principio della neutralità.
Il recensore spera di avere convinto chi è giunto fino a questo punto del potere euristico della interpretazione che van Dijck dà dei social media, tra connettibilità umana e connettività automatica, e che sia stuzzicato a vederne l’applicazione ai microsistemi di queste cinque piattaforme: comperando il libro.
Chi vorrebbe sapere subito “come va a finire” con le tensioni da cui abbiamo preso le mosse, può seguirci nel guardare nel suo insieme l’ecosistema dei connective media, le tensioni sottostanti la normalizzazione degli algoritmi nella vita quotidiana, tra appropriazione giuliva e resistenza critica, dove per normalizzazione si intende prenderli per scontati come infrastrutture. Quali sono le basi culturali e ideologiche di questo ecosistema, che lo fanno così connesso senza soluzioni di continuità? E’ il caso di ricomporre le storie dei microsistemi e vedere i modi in cui l’ecosistema interconnesso definisce i rapporti sociali online: ingabbiando (lock in), recintando (fence off), abbandonando (opt out).
Lock in: la base algoritmica delle relazioni sociali
Il mondo delle app è un intreccio di collaborazione e di competizione: alcune piattaforme cercano di “ingabbiare” gli utenti rendendosi incompatibili con quelli dei concorrenti, altri cercano invece di essere su tutte le piattaforme. Facebook è presente ovunque coi suoi pulsanti like e share, ha la prevalenza nel settore delle reti sociali. Twitter con follow ha la preminenza tra i microblogger. Google ingabbia l’utente nella sequenza di suoi algoritmi: in quattro click, dal suggerimento di un amico su Google +, a un clip su You Tube, a scaricarlo da Google Music, a pagarlo con Google Wallet. Facebook ha scelto like piuttosto che important perché like misura il desiderio di una cosa oppure l’affinità di idee: quando la gente vede che cosa piace ad altri, lo desidera di più. La stessa cosa vale per la funzione follow o ritweet di Twitter o per il meccanismo di ranking di YouTube: le attività sociali sono tutte inestricabilmente legate agli obbiettivi economici in una cultura di suggerimenti “personali” automatizzati.
Gli utenti sanno bene che le piattaforme, alle origini basate sulla interazione egualitaria di persone con gli stessi ideali liberali e democratici, sono ora mosse dalla ricerca del profitto: ma ne traggono anche vantaggio, la capacità di Facebook e Twitter di creare reti globali aumenta l’efficacia delle comunicazioni. Nel corso di dieci anni gli utenti hanno negoziato le loro relazioni con le piattaforme: protestano quando si sentono ingabbiati nel flusso dei microsistemi, quando hanno notato che i siti modificano le interfacce o i ToS. L’attuale dominanza di alcune piattaforme è dopo tutto precaria: follower ingenui possono diventare critici dissenzienti che alzano la loro voce con blog individuali o con altre forme di partecipazione; hanno lasciato Myspace e Flikr, potrebbero lasciare Facebook o YouTube..
Il contenuto è l’esca per attirare utenti che desiderano condividere musica, video, idee. Alcuni sostengono che in questo modo gli utenti, “ingabbiati” nella bolla cognitiva di un determinismo informativo in cui il nostro passato definisce il nostro futuro, tendono a cliccare il contenuto preselezionato dalla piattaforma e confermato dai click degli amici: hanno le stesse informazioni, comprano gli stessi prodotti, guardano le stesse clip.
Fence off: integrazione verticale e interoperabiltà
Google, Facebook, Apple e Amazon: sono poche le catene di piattaforme che dominano l’ecosistema dei media connettivi, microsistemi verticalmente integrati per mezzo di costruzioni proprietarie, azionarie, di partnership. Quella che fa capo a Google, dopo essersi allargata a quasi tutti i tipi di piattaforme, ha partnership con Twitter, Wikipedia, Android. L’altra fa capo a Facebook, con Microsoft e Instagram. Entrambi cercano di controllare tutte le entrate nell’ecosistema, attirando gli utenti sulle proprie piattaforme. Google vuole essere la porta per l’universo online, Facebook “il passaporto per Internet”. Cercano di eliminare la concorrenza, recintando il campo dei rapporti sociali online? Google vuole che lo strato sociale del Web rimanga aperto in modo che i suoi motori di ricerca possano scavare in ogni tipo di contenuto, indipendentemente da dove è stato prodotto: si presenta dunque come la naturale estensione del Web neutrale. Facebook nega l’accesso alle sue pagine, perché vuole essere il provider di altri servizi: recintando una crescente parte del territorio restringe la risorse a cui ha accesso Google.
Con il generale processo di verticalizzazione, promuovere rapporti sociali online è nelle mani di tre (quattro se si conta Amazon) grandi gruppi che hanno gli stessi principi operativi, ma differiscono per principi ideologici (aperto contro chiuso). Nei chiusi giardini dell’Eden resta poco spazio per il non-profit e il settore pubblico. Perfino Wikipedia è collegata alle catene verticali, si avvantaggia dalla massima connettibilità a Google, mentre Google ci guadagna a raccogliere i metadata di Wikipedia: tanto la connettività non ha valore per l’enciclopedia gratuita.
L’ecosistema dei mezzi connettivi non ha uno spazio per piattaforme non-profit o pubbliche separato dallo spazio commerciale. Le aziende sono state svelte ad adottare servizi che appartenevano alla sfera pubblica: si pensi a Google Scholar, Google Books, Google Scholar. Come un numero crescente di servizi pubblici è stato outsourced al settore privato, così l’estensione ai rapporti sociali, alla creatività, alla conoscenza è la prosecuzione di una tendenza radicata negli ideali di libero mercato e deregolamentazione. Utility nel contesto di Google e Facebook non significa “più pubblico e neutrale”, ma onnipresente e inevitabile. Sono Google e Twitter a presentarsi come guardiani della neutralità e di un internet aperto, mettono in guardia dalla sovraregolamentazione del settore tecnologico, freno all’innovazione e agli investimenti.
Ma chi regola il territorio dei media connettivi? La questione delle piattaforme che “recintano i giardini”, dentro i clienti, fuori i concorrenti, è una questione di controllo dei dati e dei contenuti dei clienti. Privacy degli utenti, proprietà dei dati, copyright sono regolate dalle piattaforme nei loro ToS, regole che possono cambiare e che non hanno validità fuori della piattaforma stessa. Ma che cosa deve essere regolato se gli utenti scelgono la comodità dei servizi della piattaforma a spese del controllo sui loro dati privati? La Commissione europea e la Federal Trade Commission considerano la dominanza di Google come un problema di antitrust: ma la chiave della regolazione sta nei segreti tecnologici che sono al di fuori dei poteri del regolatore.
Analogo discorso per la privacy, che andrebbe affrontata per l’ecosistema nel suo complesso e non per i singoli microsistemi: i ToS sono sovente difficile da capire, sono modificabili da parte delle aziende, e modificare i setting di default sovente richiede notevoli competenze tecniche.
Opt-out: la connettività come ideologia
Fin dall’inizio al centro del modello di business dell’ecosistema c’era la nozione di libero, nei suoi diversi significati: contenuto generato gratis dagli utenti, distribuito gratis dalle piattaforme, incontaminato dagli interessi dei media tradizionali, del commercio, del governo. Il fascino della reciprocità tra servizi e Ugc, rendeva gli utenti ostili a pagare in qualsiasi forma. Quando i collettivi furono rimpiazzati dalle aziende, libero significò pagato non in moneta ma in attenzione e in profilatura di dati comportamentali. Per alcuni i servizi personalizzati sono il massimo della convenienza, per altri sono un’invasione della privacy, per altri ancora l’essere ingabbiati in servizi che non si apprezzano. Anche se in un sondaggio solo un terzo degli utenti sarebbe disponibile a pagare qualcosa per l’impegno a non usare i loro dati per scopi commerciali, è dubbio che questa sia una possibilità che gli verrebbe concessa: Google e Facebook sono irremovibili nel difendere il loro modello di business contro tentativi di introdurre l’opzione “non tracciare”. Apple, Microsoft e Twitter invece la offrono, come strumento di concorrenza. Ma il maggior problema è l’opacità dei business model nascosti negli algoritmi proprietari.
Si può sostenere che l’ecosistema ne guadagnerebbe se gli utenti avessero a facoltà di opt out: poter cambiare piattaforma senza perdere tutto il proprio patrimonio di dati, o almeno aver la possibilità di modificare le impostazioni di default in modo da impedire alle piattaforme di tracciare i dati. Ma l’opt out urta contro ostacoli tecnico-economici e anche contro norme sociali, e contro gli imperativi ideologici e le logiche culturali su cui si reggono. E’ più facile codificare le relazioni sociali in un algoritmo piuttosto che decodificare l’algoritmo in azioni sociali: sono sociali gli ostacoli che rendono difficile l’opt out, sono le pressioni degli amici e dei colleghi a restare nel mondo della connettività online: perché non condividere tutto? perché non apprezzare la pubblicità gratuita? Opt out, per molti, significa abbandonare le proprie relazioni sociali. E’ che il potere delle relazioni sociali è molto maggiore di quello di law and order: in meno di un decennio, senza che ce ne accorgessimo, le norme delle relazioni sociali online sono cambiate: era priorizzare la connettibilità, è diventato allineare connettibilità e connettività, considerando i due termini intercambiabili. “Sociale” è diventato un ombrello che nasconde più di quello che rivela: questa è la ragione per preferirgli il termine connective media.
Zuckerberg, caratterizzando la privacy come una norma in evoluzione, ha fatto dello sharing il gold standard. Google accusa i concorrenti di fare sistemi chiusi che gli altri non riescono a penetrare. Le piattaforme sono diverse ma i principi della neutralità, della connettibilità e della connettività, della rapida crescita e del flusso continuo dei dati, del winner takes all e dello star system hollywoodiano costituiscono un insieme di principi singolarmente coerente.
Opting out richiede una continua vigile attenzione non solo a come operano le aziende ma anche alle norme sociali e culturali. Dalle storie dei singoli microsistemi si ricava un processo di normalizzazione, dove certe parole, sharing, friending, liking, trending, following hanno preso significati dominanti. La cultura della connettività si è manifestata come una serrata negoziazione delle diverse piattaforme tra loro e con i loro utenti sul significato delle relazioni sociali online e della creatività. I connective media sono diventati quasi sinonimi con le relazioni sociali, puoi opt out ogni volta che like , ma non puoi mai lasciare.
E’ diventata adulta la generazione per cui i social media sono un dato, un’infrastruttura che non si mette in discussione; è importante rendere esplicite le strutture ideologiche sottostanti ai microsistemi e alla loro ecologia. Mentre stanno emergendo sistemi intelligenti più avanzati è necessario diffondere cultura informatica arricchita da competenze analitiche e capacità di giudizio critico. Questa critica storica del primo decennio dei connective media è il primo passo verso un futuro sostenibile.
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