di Franco Debenedetti e Carlo Stagnaro
Se i fatti cambiano, ne prendo atto e cambio idea”: è con queste parole attribuite a John Maynard Keynes che Francesco Giavazzi ha consegnato domenica al Corriere della Sera la sua riflessione sulla politica industriale. L’ex consigliere economico di Mario Draghi ne è sempre stato un fiero avversario, ma – dice – adesso il gioco è cambiato a causa delle aggressive politiche espansionistiche della Cina e dell’Inflation Reduction Act americano. A noi sembra invece che gli argomenti citati da Giavazzi confermino la bontà della sua visione precedente, e certo non giustificano l’adesione alla scuola di Mariana Mazzucato.
Fino a poco tempo fa, Giavazzi era convinto che “un ministro dell’Industria non serve perché per disegnare una buona politica industriale basta una buona Autorità antitrust che garantisca condizioni di concorrenza sui mercati”. Questo era ed è ancora vero all’interno di uno stato o di un insieme di stati (come l’Unione europea) che confermino il valere di quelle condizioni. Non è una tautologia, è il riconoscimento che i mercati esistono, da sempre, solo col rispetto di certe regole. Ed è a questo fine che agli stati viene riconosciuto legittimo il monopolio della forza, e quello di imporre tributi. Al loro interno garantiscono la concorrenza, all’estero, nei rapporti con gli altri stati, praticano una politica di potenza.
La sovrapposizione tra politica estera e di sicurezza nazionale, da un lato, e politica di concorrenza, dall’altro, è più fonte di confusione che di comprensione. Giavazzi cita, in particolare, il caso della Cina, che starebbe conducendo una politica di shopping, sia in Europa (come nel caso del porto del Pireo) sia fuori (come nel caso delle materie prime in Africa), per aggiudicarsi un primato globale. La condotta cinese, quanto meno nel continente africano, si può chiamare in un solo modo: colonialismo. Ed è una politica che i paesi occidentali hanno praticato nel passato e che oggi, giustamente, rifiutano. In quale modo il ricorso a una politica industriale muscolare in Europa può essere un’alternativa al colonialismo cinese? E’ vero semmai il contrario: più l’Europa si chiude, a suon di protezionismo e aiuti di stato, e più i paesi terzi si trovano privi di alternativa. Se vogliamo competere con la Cina su quel terreno, non possiamo pensare di farlo come nell’Ottocento: possiamo farlo soltanto aprendo i nostri mercati alle merci e alle persone provenienti da quella parte del mondo, di cui noi abbiamo bisogno e che hanno bisogno di noi.
Naturalmente, ci sono anche altre ragioni dietro all’acuirsi delle tensioni con la Cina.
Se gli Usa obbligano le imprese americane ad azzerare gli investimenti industriali e commerciali fatti in un determinato paese (la Cina), è per ragioni di concorrenza elettorale: agitare lo spauracchio del nemico esterno per favorire gli amici interni non è un fatto nuovo, è la professione più antica del mondo.
Per certi versi analogo è il caso dei costi per la transizione verde. Questa richiede che siano stabilite e vengano fatte accettare da tutti gli stati norme che alterano, in misure e modi diversi, i prezzi relativi delle diverse fonti e tecnologie energetiche, per promuovere quelle più pulite. Solo gli stati hanno (o possono mobilitare) le risorse per farvi fronte, e la legittimità di farlo. Ma gli economisti hanno da tempo dimostrato che il modo migliore di ottenere questo risultato è penalizzare la produzione di emissioni, non scegliere i vincenti della gara tecnologica sulla base di qualche studio ministeriale. Proprio l’opposto di quanto vorrebbero i fautori della politica industriale. Ha ragione Giavazzi: “E’ raro che contributi pubblici distribuiti gratuitamente abbiano creato innovazione”. E il costo opportunità di queste misure – e di quelle analoghe che, pur non stanziando fondi pubblici, obbligano le imprese a indirizzare le proprie produzioni nella direzione voluta dai governi – può essere immenso.
Ragionamento analogo per gli investimenti per la fusione nucleare. Lì incertezze tecniche e costi sono talmente elevati da aver indotto a provare con un crowdfunding tra stati. Nel frattempo sono sorte un certo numero di imprese che propongono minireattori a fissione fabbricati in serie: con risposte per ora appena incoraggianti. Ma la domanda vera è: qual è il modo migliore per scoprire quali tecnologie saranno più efficaci nel garantire la decarbonizzazione? Lasciare che sia il mercato a individuare quelle più promettenti o delegare la scelta a una commissione di burocrati? La questione è tutta lì. Non riguarda l’obiettivo (la neutralità climatica) ma i mezzi per raggiungerlo.
Tutte cose su cui si può discutere. Ma il nocciolo del problema, il cuor della disputa tra statalisti e liberisti è se siano più gli investimenti pubblici o quelli dei privati (se lasciati liberi di scegliere come allocare i propri capitali) a produrre innovazione. E’ questo il terreno di scontro tra il cavallo di battaglia di Mariana Mazzucato (che, ci ricorda Giavazzi, insegna all’University College di Londra) e il nostro ronzino dell’Istituto Bruno Leoni. Anche senza fare trucchetti e anche con la difficoltà di sapere, nell’idraulica dell’economia, da dove è venuto ogni dollaro che ha prodotto ogni innovazione, c’è una ragione determinate a favore dell’investimento privato: la sola cosa certa che si sa del processo innovativo è che esso procede per trial and error. E questo non va bene per il pubblico che è ovviamente riluttante a riconoscere i propri errori, finché non vi sia costretto dalla loro dimensione.
E poi l’altro motivo: che nella scelta degli obbiettivi aziendali, nel loro finanziamento e nella selezione dei manager è inevitabile che entrino criteri che non sono quelli della concorrenza per cui Giavazzi vorrebbe cambiare idea. Ingeneroso ricordare OpenFiber? L’Italia si sta dotando di una rete unica per le telecomunicazioni, una scelta compiuta da nessun altro paese europeo, con l’unico obiettivo reale di salvare un perdente. Altro che “mission-oriented innovation”. Se l’argomento è che la corsa alla Luna ci ha donato una quantità di innovazioni che poi abbiamo imparato a usare e applicare in altri ambiti, c’è forse qualche granello di verità, ma come si può pensare di espandere il ragionamento a quasi qualunque altro ambito dell’economia?
E poi, che senso ha ampliare a dismisura il ruolo dello stato quando a malapena esso riesce a svolgere in modo efficiente le funzioni di cui si è preso l’esclusiva? Come dimostrano Tito Boeri e Roberto Perotti nel loro ultimo libro dedicato al Pnrr, oggi il rischio per l’Italia non è di non avere abbastanza risorse, ma di spendere male perché spende troppo (aggiungeremmo che non è certo una novità, in un paese che intermedia più della metà del pil). Prima e più che cercare nuovi compiti per lo stato, questo dovrebbe dimostrare di sapere far funzionare le sue articolazioni fondamentali, dalla forza pubblica alla macchina giudiziaria, dal fisco agli appalti, fino alla più importante di tutti: la scuola. Sulla diagnosi dei risultati concordano tutti (quelli in buona fede): parlano i numeri. C’è anche la soluzione: ne abbiamo scritto in un long form sul Foglio del 16 maggio scorso e ne ha ampiamente discusso lo stesso Giavazzi nel suo aureo libretto con Alberto Alesina “Il liberismo è di sinistra”. Certo che riformare la scuola può disturbare qualcuno, ma bisogna sempre diffidare delle riforme che trovano tutti d’accordo. Perché non sperimentare una maggiore apertura e concorrenza tra gli istituti scolastici? Non si può pensare che la soluzione di tutti questi problemi, dalla giustizia alla scuola, si esaurisca nella mera assunzione di nuovi dipendenti in un sistema che fa acqua.
di Francesco Giavazzi – Corriere della Sera, 11 novembre 2023 Il tempo dei dibattiti teorici è passato. Soprattutto sui rapporti con Pechino le domande sono più concrete e più urgenti Scriveva John Maynard Keynes: «Se i fatti cambiano, ne prendo atto e cambio idea». Due sono le novità che oggi ci obbligano a ripensare la politica industriale e, almeno nel mio caso, a cambiare opinione, abbandonando l’idea, che ho spesso espresso, che un ministro dell’Industria non serve perché per disegnare una buona politica industriale basta una buona Autorità antitrust che garantisca condizioni di concorrenza sui mercati. Purché i mercati non siano influenzati da fattori esterni che ne modificano i comportamenti. La prima novità riguarda il ruolo della Cina che ormai impedisce alle organizzazioni internazionali preposte alla concorrenza e al libero mercato di funzionare. Nei decenni recenti, ad esempio, Pechino è abilmente entrata in Africa concedendo prestiti a Paesi del continente che mai saranno in grado di ripagarli. Quando questi prestiti arrivano a scadenza la Cina non ne chiede il rimborso, ma chiede contro-partite commerciali o politiche: una miniera di terre rare, una commessa per la fornitura di armi, un porto strategico cruciale per le navi commerciali cinesi. Anni fa, durante la crisi greca, Pechino «acquistò» il porto del Pireo, più recentemente ha cercato di «acquistare», finora senza riuscirci, il porto di Trieste. È evidente che con la Cina in campo la concorrenza non basta, anche perché Pechino non partecipa al Club di Parigi, che è il tavolo intorno al quale i Paesi creditori si accordano per risolvere le crisi di debito. Ad esempio, la recente ristrutturazione del debito dello Sri Lanka verso i Paesi del Club di Parigi si basa su un impegno non scritto: che lo Sri Lanka non conceda alla Cina condizioni migliori di quelle che ha concesso ai Paesi del Club, un impegno basato solo sulla buona volontà. Gli interventi americani, e oggi anche europei, che vietano il commercio con la Cina di alcuni prodotti, soprattutto contenenti tecnologia digitale, hanno anche questa (comprensibile) motivazione. La seconda novità è l’Inflation Reduction Act (Ira), la legge con la quale l’amministrazione Biden sta distribuendo oltre 500 miliardi di dollari di sussidi, in parte per compensare le aziende basate negli Stati Uniti a fronte del parziale divieto di commerciare con la Cina, in parte per consentire loro di sopportare i costi della transizione verde. Una simile legge in Europa non sarebbe possibile perché si scontrerebbe contro il divieto di «aiuti di Stato» previsto dai Trattati dell’Ue. Un divieto, gli aiuti di Stato, che deriva da un assunto giusto: l’innovazione, la produttività, si sviluppano se le imprese sono spinte ad innovare — nuovi prodotti, nuovi modi di produzione, etc. — dall’incalzare della concorrenza. È raro che contributi pubblici distribuiti gratuitamente abbiano creato innovazione. Su questo in verità c’è una grande discussione: la professoressa Mariana Mazzucato, che insegna all’University College di Londra, pensa ad esempio che senza la ricerca militare finanziata dagli Stati, e soprattutto dagli Usa, durante la Seconda guerra mondiale, oggi non avremmo né internet, né l’iphone. È un’ipotesi. Ma ci sono contro-esempi importanti. Alcuni dei rari esperimenti di successo nel creare energia utilizzando tecnologie nucleari pulite (cioè senza emissione di scorie radioattive) sono nati in start-up californiane finanziate esclusivamente da investitori privati. Da trent’anni l’Ue, insieme a Cina, India e altri Stati, finanzia Iter, un progetto pubblico di fusione pulita. Finora è costato ai contribuenti di questi Paesi oltre 30 miliardi di euro, ma i risultati sono in ritardo di almeno una decina d’anni rispetto a quelli di quelle start-up californiane. Il tempo dei dibattiti teorici però è passato. Le domande oggi sono più concrete e più urgenti. Consentiamo il commercio con la Cina di apparecchiature digitali che Pechino potrebbe usare per controllare installazioni militari o di comunicazione europee e americane? E se non consentiamo alle nostre imprese di vendere i loro prodotti ai cinesi, come evitare che l’innovazione in queste aziende si fermi, se non consentendo agli Stati di finanziarla, come hanno deciso di fare gli americani? Accettiamo che imprese europee si trasferiscano negli Stati Uniti per avere accesso ai fondi dell’Ira, come alcune stanno pensando di fare? E se gli Usa finanziano con fiumi di fondi pubblici la transizione verde, che facciamo? La abbandoniamo, torniamo al carbone, come sta facendo la Germania? Questo caso specifico lo si può affrontare con la vendita dei «diritti a inquinare», un’idea europea che funziona, ma non sempre ci sono soluzioni altrettanto semplici. Se in Europa cancelliamo il divieto di aiuti di Stato, si apre un problema: governi, come quello tedesco, che hanno poco debito, possono facilmente indebitarsi per sussidiare le proprie imprese. Ma che ne sarebbe dell’Italia e della Francia? Non è un caso che uno dei Paesi europei più preoccupati da un «liberi tutti» sugli aiuti di Stato sia l’Olanda, un Paese piccolo con tante imprese grandi: difficilmente il governo olandese potrebbe emettere una quantità di debito analoga a quella che Biden ha emesso per aiutare le aziende americane. Anche qui una soluzione ci sarebbe ed anche relativamente semplice. Il programma Next Generation Eu (di cui il Pnrr è parte) ha rotto un tabù consentendo che alcuni investimenti pubblici potessero essere finanziati con debito europeo comune (eurobond), purché per obiettivi condivisi e sotto la sorveglianza della Commissione europea. Non tutti i Paesi erano d’accordo, molti ancora non lo sono, e solo la gravità della crisi che ci colpì con il Covid li convinse. I motivi che oggi suggeriscono di emettere debito comune non si limitano alla Cina e alla transizione verde. Prima o poi comincerà la ricostruzione dell’Ucraina distrutta dai russi, un compito che nella divisione delle responsabilità con gli Stati Uniti spetterà in gran parte all’Ue. Saremo anche costretti ad aumentare il bilancio della difesa, e anche qui sarebbe una follia se ciascun Paese continuasse a fare da solo, con il risultato, come accade oggi, di avere tre o quattro aerei da caccia diversi, ciascuno con il suo meccanismo d’arma. Tutte ragioni importanti per accelerare l’integrazione, almeno finanziaria, dell’Unione — come da tempo ripete, l’ultima volta la settimana scorsa, Mario Draghi. È comprensibile che il dibattito in Italia oggi sia tutto sulla legge di Bilancio e che persino sul nuovo patto di Stabilità si manifestino pericolose distrazioni. La legge di Bilancio arriverà in Parlamento nelle prossime settimane ed è normale che sia al centro dell’attenzione perché è quella legge che distribuirà le poche risorse disponibili per famiglie e imprese. Ma è una legge il cui orizzonte non va al di là di un anno e commetteremmo un errore a pensare solo in termini di brevissimo termine, di anno in anno appunto. Le nuove regole che stiamo negoziando con gli altri Paesi dell’Ue varranno per almeno un ventennio. Serve a poco battersi per regole che ci diano più flessibilità fiscale se non abbiamo in mente un percorso. Se non inseriamo le nostre scelte in quelle più ampie dell’Unione riuscendo a orientarle. Ma per farlo bisogna sapere dove si vuole andare. Soprattutto quando i fatti cambiano è necessaria chiarezza di visione.
L’economia e le regole saltate
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