La guerra obbliga la sinistra a una scelta
La guerra obbliga la sinistra a una scelta. Una scelta esistenziale, nel senso che da essa dipende la sua sorte per molti anni a venire. Una scelta non eludibile, anche il rifiuto di compierla in modo esplicito sarebbe già una scelta.
Bisogna innanzitutto aver chiaro di quale tipo di guerra si tratti e per che cosa essa venga combattuta. Il terrorismo non attacca l’America per batterla, o per ottenerne qualcosa. Il suo obbiettivo non é di continuare ad abbattere grattacieli o a spedire lettere all’antrace, quelli sono strumenti. E men che mai cerca la soluzione di alcuni conflitti a cominciare da quello palestinese. I terroristi usano l’America per provocare cambiamenti di regime politico in nazioni a forte presenza musulmana: incominciando dal Pakistan in un’area che va dall’Indonesia alla Nigeria, dal Caucaso all’Arabia Saudita, nazioni che possiedono e la massima parte delle riserve petrolifere del mondo, e la bomba atomica. Queste non sono illazioni, sono programmi dichiarati. Né sono un temerario disegno: anzi, dai consensi che già oggi i terroristi possono contare in quell’area, dalle sommosse che sono riusciti ad infiammare in appena un mese, appare assai meno temerario di quello di altre avanguardie rivoluzionarie, che pure ebbero successo nel secolo scorso. Un fatto è certo: una sconfitta o una non vittoria dell’America in Afganistan galvanizzerebbe le masse fondamentaliste, renderebbe questo esito altamente probabile, forse inevitabile.
Molta parte della sinistra è però contraria ai bombardamenti angloamericani in Afganistan. Non avendo a portata di mano, in questa occasione, l’argine a cui è spesso ricorsa in passato, cioè l’appello all’egida dell’ONU, che ha invece esplicitamente autorizzato le azioni, ricorre all’argomento che non vi possa essere lotta al terrorismo senza che prima si sia applicata una “giustizia”, intesa non come introduzione della “rule of law” o dei diritti di libertà civili e politiche che nell’Occidente hanno radici, ma come una gigantesca azione per redistribuire le ricchezze da chi ha troppo in favore di chi ha troppo poco. Così argomentando si ammanta del fascino che sempre esercita l’utopia, ma finisce per sottrarre energie e consensi alla strada del realismo. Correggere anche solo i più drammatici squilibri mondiali necessita di tempi lunghi, di un solido quadro di rapporti bilaterali tra governi capaci di dare e di ispirare fiducia: nulla di tutto ciò è possibile se prima non si sgombra il campo dalla minaccia di un fondamentalismo terroristico che mira a destabilizzare l’intero mondo musulmano e a impedirgli ogni collaborazione con l’Occidente.
Nella presa di posizione di fronte a questo dilemma consiste precisamente la scelta che deve fare la sinistra. Una sinistra che non prenda posizione in merito al rischio che il piano dei terroristi possa realizzarsi, che non senta inconciliabilmente diverse da sé le forze politiche che mostrano di non capirlo, non è una sinistra di governo. Basta leggere la stampa di sinistra, anche prescindendo dal Manifesto e da Liberazione, per convincersi che purtroppo una parte della sinistra non ha capito che questa non è “la guerra di Bush”, ma è la “nostra” guerra, anche della sinistra. Non ha capito che la stessa sopravvivenza della sua agenda politica dipende in modo cruciale dalla vittoria o dalla sconfitta in Afganistan degli angloamericani: solo se vince Bush ci sarà ancora materia per parlare di pensioni, di gabbie salariali, magari di trastullarsi con l’articolo 18. Che senso avrà altrimenti inventarsi strumenti per governare la globalizzazione? per proporli ai terroristi? La sinistra non può pensare di eludere questa scelta perdendosi nella contemplazione di un filo d’erba, o rievocando un film di James Bond. Non lo può fare, a ben vedere, neppure una sinistra di opposizione, men che mai una sinistra di governo. E’ per questo che l’Ulivo nel suo perimetro originario, è morto il 9 Ottobre: i Verdi e i Comunisti Italiani con la loro risoluzione inaccettabile, non possono far parte di una coalizione di governo.
Fare questa scelta tocca ora in primo luogo ai DS, che si accingono a celebrare il loro congresso. Le mozioni che si confrontano sono state tutte pensate e scritte prima dell’11 Settembre, l’Ulivo a cui fanno riferimento è ancora l’Ulivo “storico”, prima cioè della crisi provocata dalle defezioni di Verdi e Comunisti Italiani. Desta un senso di irrealtà il fatto che i delegati del maggior partito della sinistra siano chiamati a discutere su documenti pensati in tutt’altri contesti e con tutt’altre priorità. E questo mentre nel frattempo nel mondo si vede nascere una politica nuova, imprevista e imprevedibile prima dell’11 Settembre; una politica che in poche settimane ha superato d’un balzo incomprensioni tra occidentali, russi e cinesi; una politica che chiede a vecchie alleanze militari come la NATO di allargare in fretta il proprio scopo; una politica che – come in ogni fase decisiva della storia – in pochi giorni fa emergere statisti – come Blair e Schroeder – capaci di sintesi e di relazioni adeguate alle sfide, ed altri fa slittare nelle retrovie, prigionieri di vecchi anatemi e di nuove incapacità. Il congresso DS è l’occasione che concretamente si presenta alla sinistra per fare la scelta di cui si diceva. I tre candidati segretari facciano uno scatto di reni per ripensare i presupposti e le proposte delle loro mozioni. E’ loro innanzitutto la responsabilità se la sinistra saprà fare la sua parte in quel riarmo morale che è il vero contributo che il nostro paese è chiamato a dare per vincere il terrorismo.
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ottobre 17, 2001