Per battere Berlusconi chiarezza una volta per tutte su tv, pubblicità e stampa

febbraio 4, 2005


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Caro Piero, Prodi sulla Rai l’ha detta giusta e io aggiungo

Smettiamola di parlare ossessivamente di Berlusconi, occupiamoci di politiche concrete per vincere. La scelta congressuale di Fassino è più che condivisibile. Invece di continuare a spender parole sui mali del berlusconismo, il «solido timone riformista» evocato da Fassino si affermerà quanto più parlerà anche ai non già convinti e ai disillusi. E non si vien meno a questo precetto, parlando di Rai e Tv, un settore che identifica l’interesse concreto rimario di Berlusconi, e su cui al contempo il centrosinistra si è spesso diviso.

Non è un caso che Romano Prodi abbia fatto della Rai, il 30 Dicembre 2004 sul Corriere della sera, il primo, credo per ora unico, esplicito e dettagliato punto del suo programma. Ieri Fassino ha rilanciato facendo un’ottima proposta : se la maggioranza mette mano a un nuovo vertice della Rai condiviso, l’opposizione attuale si impegna a lasciarlo in carica anche se vincesse le elezioni. Quanto al resto, ha giustamente criticato la falsa e per altro forse neanche più perseguita cosiddetta privatizzazione disposta dalla legge Gasparri, sui cui ritardi il direttore generale Cattaneo sta perdendo al sua credibilità. Sul resto, Fassino ha un po’ svicolato, rinviando a un nuovo modello di garanzia di centralità del servizio pubblico.
Prodi è stato chiaro, sulla Rai: separare la Tv finanziata dal canone da quella finanziata da pubblicità e cedere quest’ultima ai privati. Se ne deve dedurre che le reti da vendere sono Rai 1 e Rai 2: per evitare una competizione troppo impari con Mediaset (nell’ipotesi di cessione a un unico soggetto); o per massimizzare la competizione (nell’ipotesi di cessione a due soggetti distinti, che potranno poi attraverso acquisizioni o intese – per esempio con syndication di tv locali – accrescere la propria offerta). E’ una soluzione che accetto anche se non è la mia (io venderei anche Rai 3 e spalmerei l’onere di servizio pubblico su tutte le reti nazionali); implementata, varrebbe a evitare lo sconcio degli ultimi 4 anni con il 90 per cento e passa dell’ascolto televisivo nelle mani del capo del governo. Questo è il punto di partenza. Bisogna andare oltre. E oltre significa la tv in generale, il nostro rapporto con quel mezzo, significa esorcizzare paure e pregiudizi ancora radicati a sinistra contro la televisione in quanto mezzo “intrinsecamente berlusconiano”, che produce regressione culturale e che esercita il pervasivo potere di un unico grande fratello.
Di questo timore è figlia la teoria secondo cui l’anomalia degli assetti proprietari della televisione sarebbe la causa di un’altra anomalia, quella nella pubblicità, per cui la tv in Italia assorbe una quota superiore a quella degli altri paesi europei a danno della carta stampata, così minacciando la libertà di stampa. Un tema apparentemente marginale: ma che ci serve per guidarci, attraverso il labirinto delle sue contraddizioni, nel vivo dell’idea stessa di come funziona l’economia del paese. Contraddizioni logiche ed empiriche insanabili sono infatti quelle in cui incappa l’ipotesi del rapporto di causa ed effetto tra le due anomalie: eppure é accettata acriticamente, e lo stesso generale consenso é diventato prova, a volte sprezzantemente brandita.

Mi devo limitare ad accennare telegraficamente ad alcune di queste aporie. Se la pubblicità televisiva è un monopolio, i prezzi saranno più alti, non meno, alti; la pubblicità sulla carta stampata ha quindi un vantaggio di prezzo, non uno svantaggio. In Italia ci sarebbe un’offerta di spazi pubblicitari maggiore che altrove, più canali e più affollamento: ma in Germania, con limiti di affollamento più generosi per spot e telepromozioni, la quota di pubblicità tv è minore tra i grandi paesi d’Europa; mentre in Gran Bretagna, che vieta le telepromozioni, la quota di pubblicità tv è superiore a quella tedesca. Mediaset discriminerebbe tra i suoi clienti, prezzi alti ai grandi per finanziare prezzi bassi con cui attrarre i piccoli investitori? Ma l’Antitrust, che pure ne critica la posizione dominante, non ha neppure iniziato un’indagine per prezzi predatori; presupporre un’omertà così compatta appare poco credibile.
Perché la teoria delle anomalie simmetriche, così contraddittoria e debolmente fondata, viene invece ritenuta certa? Perché vengono respinte le spiegazioni, coerenti e solidamente fondate, che guardano l’altro lato del mercato, il lato della domanda, cioè quello delle imprese che investono in pubblicità, delle loro specializzazioni produttive, delle loro dimensioni, delle loro strategie di marketing? Moltiplichiamo i convegni sul declino, ci perdiamo in descrizioni sulla diversità tra la nostra struttura produttiva e quella dei nostri partner europei, ma se registriamo diversità nelle scelte di investimenti pubblicitari gridiamo all’anomalia. Noi vogliamo essere creduti capaci di guidare questo paese fuori dalla sue presenti difficoltà: ma per farlo è alle imprese che dobbiamo guardare, alle loro strategie, di cui fa parte la loro domanda di pubblicità; alla domanda, non alla quantità dell’offerta, come se la pubblicità fosse l’acciaio o l’energia elettrica dei tempi delle politiche di piano. Per spiegare il successo di Berlusconi ce la siamo presa col “popolo bue” e si è visto con quanto successo; per spiegare le “anomalie” delle loro scelte di investimenti pubblicitari vogliamo prendercela con gli “imprenditori pecore”?

Rispondendo a un mio articolo sul Sole 24 Ore del 23 gennaio, in cui notavo che in Italia la struttura della domanda di pubblicità era diversa da quella degli altri paesi dell’Unione europea, per il predominio dei prodotti di largo consumo e soprattutto alimentari, rispetto a catene della distribuzione e pubblicità finanziaria, la Fieg, per bocca del suo presidente, ha così replicato: «Correggere questo dato (che televisione assorba molte più risorse pubblicitarie e la stampa molto meno che negli altri paesi europei) dovrebbe essere l’obiettivo a prescindere dalle sue cause se si vuole difendere la libertà della stampa». Prego rileggere: da un lato si lamenta la «televisione pigliatutto»; dall’altro si chiede di «correggere questo dato di fondo a prescindere dalle sue cause». Che la libertà di stampa debba passare per una assegnazione ope legis degli spazi pubblicitari, questa sì mi sembra una prospettiva orwelliana: ma nessuna voce si è levata scandalizzata a protestare.
La teoria delle “anomalie simmetriche” rimanda al tema dei giornali e della proprietà dei giornali. Lì sta la chiave per individuare il modo di ottenere concorrenza imprenditoriale nella televisione, e competizione politica con Berlusconi. Gli assetti proprietari dei giornali ci parlano della struttura natura e storia del nostro capitalismo fin da tempi ben precedenti a quello della discesa in campo del Cavaliere. Ci dicono dei rapporti del nostro grande – per modo di dire – capitalismo con il potere politico: sono questi che producono la corsa a conquistare, l’affanno a mantenere, l’urgenza a condividere posizioni di controllo dei giornali da parte di imprenditori che hanno altre vocazioni e, sovente, altri problemi (con una sola eccezione che sarei ipocritamente reticente a non citare, che riguarda l’impresa di mio fratello). Problemi che, alla fine, sono le banche a “risolvere”: con il che il cerchio si chiude. E’ sì o no compito della politica cogliere queste connessioni, andare alla radice di questi antichi problemi? O preferiamo scrollarceli dalle spalle e archiviarli come offerta sovrabbondante di pubblicità? E la sinistra, deve assistere a questi intrecci in silenzio, credendo domani tornino a proprio vantaggio?

Non è impossibile battere Berlusconi sul terreno imprenditoriale. Telecom ha utili dello stesso ordine di grandezza del fatturato di Mediaset, dispone di telefono, internet, televisione. Esistono gruppi editoriali con grande capacità nella produzione di contenuti e posizioni consolidate nel mercato e la pubblicità. Le potenzialità delle aziende sono una cosa, le esigenze dei loro azionisti un’altra. Il problema non sono i soldi. In un paese in cui è stato possibile finanziare per anni una truffa su un improbabile impero del latte, non ci dovrebbero essere problemi a finanziare imprese serie che vogliano erodere il potere di un’azienda che fa utili da capogiro. E noi batteremo Berlusconi sul terreno politico, ma per farlo c’è bisogno di una attenzione penetrante alle imprese, alla loro specificità, alle loro necessità. E alla loro struttura proprietaria, e a quella delle banche che, di alcune delle maggiori, sono proprietarie di fatto.
Ci sono più cose in cielo e in terra, caro Piero, di quante non se ne sognino le nostre filosofie. Vale per molti temi tra quelli che hai trattato ieri. Anche per le teorie sulle anomalie simmetriche della tv e della pubblicità in Italia. Non si riformerà la Rai e il servizio pubblico in modo credibile, se non lo terremo per chiaro.

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