Al Direttore.
Credo fosse due anni fa, una calda giornata di sole. All’Università La Sapienza si dibatteva di liberalizzazione delle telecomunicazioni. E’ inaccettabile, sostenevo, che alla vigilia (fa fin tenerezza ripensarci!) della sua privatizzazione il monopolista pubblico si annetta anche il monopolio del cavo nelle città, e di I ì si conquisti l’ingresso nel settore televisivo. Lo sostenni con foga, tanto che Miro Allione, allora amministratore delegato di Stream, lasciò la sala indispettito. Se il suo successore Io sapesse avrebbe oggi un motivo in più per sorridere soddisfatto: Stet Telecom sta per concludere l’accordo che sancirà la sua entrata a vele spiegate nella televisione; non solo in quella via cavo, dove ormai più nessuno è in grado di contrastarla, ma in quella satellitare.
Chi ha il gusto, un po’ perverso visti i risultati, di occuparsi di queste cose, ricorderà te messe a punto dell’allora amministratore delegato Stet Ernesto Pascale: Stream, giurava sdegnato, è solo una struttura di servizio, che sani poi a disposizione di tutti. Tutti ricorderanno le pubblicità di Stream, a doppia pagina, giorno dopo giorno, l’Adamo michelangiolesco stile modello di Versace cui un distinto signore infondeva la vita televisiva, Pare che l’uscita fosse stata poi bloccata dai superiori: probabilmente altro sdegno, altro sorriso. Volevi lo spezzatino? Prenditi il polpettone.
Sulla italianissima piattaforma unica satellitare Stet raggiungerà dunqiie Rai, Mediaset, Trac, che nell’attesa si sono amichevolmente spartiti i diritti sulle partite di calcio. Già lo Stato aveva propiziato la riconciliazione tra Cecchi Gori e Rai aggiungendo di suo un pacchetto di frequenze: perché mai lasciare a Berlusconi il monopolio del conflitto di interessi?
L’Enel, scriveva il sottoscritto, è il candidato ideale per fare concorrenza a Stet nelle reti telefoniche urbane. Quattro anni dopo, Tatò vuol fare entrare nella telefonia l’Enel non privatizzata garantisce Bertinotti -, mentre il Tesoro non ha ancora venduto Stet, che comunque controllerà tramite golden share. Chi pensava che fosse possibile immettere in Italia un po’ di cultura della concorrenza dovrebbe cambiar mestiere. Se poi è per saziare il proprio masochismo, ecco bello pronto un altro campo: la riforma del welfare.
La risposta di Giuliano Ferrara
Ci sono alcune cose su cui è facile concordare, gentile senatore. Primo: liberalizzare la gestione dei grandi servizi di telecomunicazione, cruciali per lo sviluppo generale dell’economia e l’innovazione tecnica, è bello e saggio. Secondo: per farlo occorre sottrarre questi servizi all’area pubblica, da cui discende o a cui è collegato il loro esercizio in condizioni di monopolio. Terzo: solo così l’Italia si darà un mercato ben regolato ma agile e vivo, capace di attrarre e impiegare al meglio, in regime di concorrenza aperto sull’Europa e sul mondo, ampie risorse. Ma una volta stabilito che questo è quel che si dovrebbe fare, cominciano i problemi veri. In Italia questo compito è nelle mani pressoché esclusive del ceto politico e di una ristretta oligarchia di poteri economici cresciuti nell’interscambio con lo Stato protettore. Si discute all’infinito di norme, di adeguamenti legislativi al Trattato di Maastricht; ma non si sente la pressione vitale di una borghesia imprenditrice veramente disposta a rischiare e desiderosa di esserci. Anzi, la lunga storia della televisione commerciale e dell’Antitrust dimostra che, quando questa borghesia si fa avanti, deve poi passare la maggior pane dei suo tempo a battersi per la sopravvivenza. La Thatcher ha liberalizzato e privatizzato, e con buoni risultati, ma dietro di sé aveva la City e una vocazione storica all’economia aperta. Noi no. Per questo tutta è così faticoso. Non crede?
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aprile 22, 1997