Il tema delle pensioni é un classico tema riformista.
Il tema delle pensioni é un classico tema riformista. Oggi, che la riforma annunciata dal Ministro Tremonti incontra la dura contestazione dei sindacati, il riformista innanzitutto contesta la posizione di chi pretende di risolve il problema negandone l’esistenza.
Non si può far quadrare i numeri forzando le ipotesi di calcolo: vuoi immaginando crescite del PIL da primo miracolo economico; o il raggiungimento di tassi di partecipazione al lavoro previsti dal vertice di Lisbona, ma il cui realizzarsi si allontana nel tempo; o sostenendo che l’invecchiamento della popolazione si accompagna a una bassa natalità, per cui il numero delle persone a carico di chi lavora non cambia, come se i costi sopportati per il mantenimento e la cura delle due categorie fossero identici; oppure ancora isolando le parti del sistema che sono in equilibrio contributivo, e chiamando il resto assistenza, da finanziare con la fiscalità generale.
Il problema esiste. Non é solo un problema di sostenibilità economica. E’, in primo luogo, un problema di equità. Equità intergenerazionale. I giovani già pagano tasse in misura molto maggiore di chi li ha preceduti; e le pensioni che otterranno alla fine della vita lavorativa saranno molto più basse. Nicola Sartor, qualche tempo fa ha calcolato che per ogni lavoratore esonerato dalla riforma del 1995 il “regalo” sia pari ad almeno 12.00 euro, un buon 15% del totale dei trasferimenti pubblici che in media otterrebbe nella vita. Equità intragenerazionale, visto che siamo il singolare paese dove le pensioni ottenete aumentano in proporzione al reddito e soprattutto dove a chi va in pensione prima dei 65 anni si dànno trattamenti vicini a quelli che vanno in pensione più tardi. Questi problemi esistevano nel 1994, e costituirono la ragione dell’appello a favore della riforma del primo governo Berlusconi, che promossi e che ebbe le firme, oltre che del premio Nobel Franco Modigliani, di Mario Baldassarri, di Sylos Labini e di Romano Prodi. Quella riforma aboliva le pensioni di anzianità e riduceva il rendimento dei contributi per tutti: era dunque equa e risolutiva, ma fu travolta politicamente.
Ora, dopo lunghissimi mesi in cui la maggioranza si é divisa verticalmente prima sul se fare la riforma, poi sul quando farla, e infine sul come farla, i segnali che si sono accumulati sul tavolo del confronto politico e sociale risultano talmente controversi che lo stesso Ministro dell’Economia ha faticato giorni a far comprendere ai media la sua proposta, in realtà per la difficoltà che aveva – e che perdura – nei suoi rapporti con la maggioranza. E’ per questa ragione politica che al Financial Times é stato spiegato per primo, con un articolo in prima pagina mentre il Ministro sbarcava a Dubai, ciò che ai giornali italiani risultava ancora molto confuso. Di qui la forbice molto differenziata di valutazione delle stime sugli effetti di una proposta appresa a spizzichi e bocconi, e calata sul tavolo internazionale a ben vedere per impedire marce indietro di partner di governo. La proposta ora é chiara. Certificare per legge i diritti acquisiti al 31- 12- 2007 in modo da scoraggiare le uscite precoci di anzianità che molti giustamente temevano come il primo negativo effetto annuncio. Inoltre, introdurre al 2008 il mantenimento di un solo canale di accesso alle pensioni di anzianità, vale a dire il requisito dei 40 anni di contributi per tutti i regimi, applicandolo anche a chi andrà in pensione con il regime interamente contributivo introdotto dalla riforma Dini., non solo a color soggetti al retributivo o a un ibrido dei due.
A tale proposta il riformista ha da obbiettare che, dal unto di vista intergenerazionale, l’iniquità non cambia. Essa potrebbe a questo punto essere attenuata solo spalmando il passaggio di tutti al regime contributivo in maniera pro rata. E’ una disponibilità che un pezzo di mondo del lavoro – tra l’altro il più antagonista cioè la CGIL – aveva dato in questo anni, e che a mio giudizio occorreva “andare a vedere”. Dal punto di vista intragenerazionale, é altrettanto evidente che la proposta di intervento non fa che introdurre un nuovo distinto regime, concentrato in alcune centurie di anzianità contributive.
Certo si tratta di un intervento che ha il merito, rispetto ad altre confuse ipotesi emerse nel Governo e nella maggioranza, di ottenere effetti correttivi della spesa pubblica destinata in pensioni assai più significativi, e ambisce per questo a essere considerata un intervento strutturale. Ma é figlio di una distorsione incomprensibile, quella di rinviare lo scatto della lama al 1 Gennaio 2008, cioè quella di continuare il gioco , che in tema previdenziale, ha accomunato sinistra e destra, di mettere tra sé e gli effetti di un provvedimento un nuovo passaggio elettorale, sfidando gli elettori da una parte ad accrescere l’incertezza delle proprie aspettative quanto a maturazione e salvaguardia dei diritti ( una legge li garantisce oggi ma li cambierà domani come é avvenuto 40 volte) dall’altro a far subire l’effetto dei “tagli” ai propri successori politici.
Inoltre quando si incomincia a incidere per punti interi di PIL sul reddito delle famiglie, come pure é necessario, non bisogna dimenticare che o il secondo pilastro davvero parte, o una grave crisi dei consumi sarà inevitabile. La politica economica è essenzialmente una politica di annunci, il suo successo dipende dalla loro credibilità, dalla loro coerenza: dalla cifra politica complessiva del governo. Per le priorità che si è dato, per gli interventi che ha privilegiato, per la discrasia tra gli annunci della vigilia e la incapacità di adeguarli alle mutate circostanze, esso va incontro a una doppia crisi di credibilità: per cui le riforme sono ad un tempo inadeguate e duramente contestate. La riforma delle pensioni esige che si intraveda il quadro complessivo in cui essa è inserita. Un quadro riformista. Non quello che questo governo è capace di offrire: non solo per i sindacati, non solo per i cittadini, ma, amaramente, anche per le imprese.
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settembre 25, 2003