Parla il grande accusatore di Penati
“Mi minacciavano e succhiavano soldi”

luglio 23, 2011


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Intervista di Paolo Berizzi

«Il mio rapporto con Penati? Si è incrinato quando ho iniziato a criticare il sistema. Che era diventato una palude insopportabile. Se fai impresa — a Sesto, a Milano, a Parma, a Napoli, dappertutto — devi entrare nella palude. Altrimenti non lavori. I politici te lo dicono chiaramente. Vuoi un’autorizzazione? Devi pagare. Oppure te lo fanno capire in modo più nobile: perché non sponsorizzi il partito, dai…? Come se fosse una squadra di calcio…». E’ un torrente in piena Piero Di Caterina, il Grande Accusatore (assieme al costruttore Giuseppe Pasini) al centro dell’inchiesta per corruzione che ha travolto la ex Stalingrado d’Italia e messo nei guai Filippo Penati. Cinquantasette anni, origini pugliesi, big lombardo dei trasporti pubblici con la sua Caronte (150 dipendenti), oltre che «uomo di fiducia di Penati» e presunto ricettore delle tangenti destinate al politico, Di Caterina secondo la Procura è stato anche un «grande finanziatore del Pd».

Lei ha dichiarato ai pm di avere pagato per anni «Penati e il partito di Penati» in cambio di appalti. In certi periodi anche «100 milioni di lire al mese».
«Ho denunciato un sistema trasversale: quello delle mazzette. O paghi o sei fuori dal mercato. Non posso entrare nei dettagli dell’indagine: a questo penseranno i magistrati. Dico solo che il sistema è uguale a sinistra e a destra. Io ho lavorato un po’ con tutti, in diversi Comuni nell’area metropolitana milanese. Non ce l’ho solo con Penati, ma con tutti i Penati d’Italia».

Accusa i politici di chiedere tangenti agli imprenditori. Ma lei le ha pagate. E ha alimentato il sistema.
«Che cosa dovevo fare, andare a lavorare in Svizzera? In Italia l’impresa va avanti con la politica. Ma a un certo punto mi sono stufato. E’ indecente che per avere un’autorizzazione alla quale avresti diritto devi pagare un politico. Se lavori con il pubblico, poi, ti spremono come un limone. Ti mettono nelle condizioni di non potere più lavorare. E’ come se dicessero a lei di fare il giornalista senza usare il telefono e senza uscire dal suo ufficio».

Il paragone è un po’ forte. Qui stiamo parlando di tangenti. E’ un reato.
«Io non sono uno che paga tangenti tanto facilmente. Se sei un pubblico ufficiale e mi chiedi una mazzetta ti do un calcio nel sedere. Se sei un politico è più facile cascarci. Loro lo chiamano lobbismo, per me sono tangenti e stop».

La accusano di essere uno degli uomini che facevano da collettore per il denaro destinato a Penati. Addirittura avrebbe intascato due miliardi di vecchie lire in Lussemburgo. E’ vero?
«E’ gossip».

Emerge dai documenti dell’indagine, lo racconta Giuseppe Pasini e lo avrebbe ammesso lei stesso di fronte ai pm.
«Voi vi soffermate sul passaggio di denaro, che è solo uno degli aspetti. Il problema è il sistema: i politici che ti stritolano. Se Atm mi deve 15 milioni nel 2005 e me li da nel 2010 sa che cosa significa per la mia impresa? E sa che cosa succedeva quando protestavo? Mi dicevano: “fai la denuncia e poi vediamo…”. In tono di sfida. E’ una cosa di una violenza inaudita. Abbiamo (la Caronte, ndr) dovuto combattere contro Atm, una potenza di fuoco. Controllata dalla politica».

Scusi, ma perché a un certo punto decide di denunciare? Le hanno girato le spalle?
«Quando ho visto che le tutele politiche che mi avevano promesso non arrivavano mi sono ribellato. Mi succhiavano solo denaro. Le prime denunce risalgono al 2006. Da allora il mio rapporto con Penati è cambiato».

Eravate amici?
«Buoni conoscenti. Amici no. Altrimenti certe cose non sarebbero accadute».

E con Pasini in che rapporti siete?
«E’ una persona per bene, un altro limone che come me è stato spremuto».

E’ vero che nel 2004 lei ha messo a disposizione di Penati un’auto per la campagna elettorale
«Sì ma non ricordo a che prezzo gliela diedi, se scontata e di quanto. Comunque noi fatturiamo tutto».

Che cosa teme di più di questa inchiesta?
«Eventuali e ulteriori ritorsioni della politica sulla mia azienda. Dopodiché, chi ha sbagliato paga. Il politico che chiede soldi e l’imprenditore che glieli dà».

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