Da un lato chiede rigore sui conti, ma dall’altro…
L’annuncio dato dalla Commissione europea che sposterà (rectius: proporrà di spostare) dal 2003 al 2006 la data in cui i paesi dell’euro dovranno azzerare (rectius: portare vicino allo zero) i loro deficit di bilancio, è stata letta come un altro episodio della partita che si gioca tra Consiglio dei Ministri dei paesi europei e Bruxelles. Una partita, secondo alcuni, in cui tecnocrati illuminati, difensori del contenimento delle spese, profeti della virtù dei bilanci in pareggio cercherebbero di contrastare Governi spendaccioni, incapaci di mettere ordine nei propri conti e di resistere all’assalto degli interessi organizzati.
I governi di Germania, Francia e Italia hanno avuto una boccata d’ossigeno, la Commissione ha evitato di doversi piegare davanti ai tre maggiori paesi d’Europa, che non possono, nella presente congiuntura rispettare gli impegni sulla riduzione del deficit (e forse neppure alcuni parametri di Maastricht) ma non per questo accetterebbero di essere ammoniti da Bruxelles. E’ la rivincita di coloro che avevano messo in guardia contro il pericolo che si finisse per dimenticare che i famosi parametri di Maastricht sono stati un mezzo politico al servizio di un obbiettivo politico, e che li si prendesse per costanti universali dell’economia.
L’euro e l’economia europea avrebbero bisogno di vedere confermati, in modo credibile, i principi di stabilità e di sviluppo, non come un vincolo, ma come risultato di una scelta politica. Invece la flessibilità che Bruxelles propone di introdurre si basa sulla distinzione tra deficit strutturale e congiunturale, una distinzione che necessiterà di interpretazioni e di interpreti. E i soli vincoli che i governi accettano volentieri da Bruxelles sono quelli che gli impongono le riforme per cui gli manca il coraggio, in primo luogo quella delle pensioni: come ha candidamente confermato Berlusconi commentando la sua finanziaria.
Ci sono le forze studiate dall’economia: sembrano volersi vendicare spezzando i vincoli con cui si cerca di irrigidirla. E ci sono le forze analizzate dalla teoria delle scelte pubbliche: dalla politica di bilancio dipende la condizione di vita di milioni di cittadini, dal loro voto dipende la vita politica dei governanti. Finchè sono eletti dai cittadini dei loro paesi, i governanti non delegheranno mai ad altri decisioni da cui dipende la loro possibilità di essere rieletti. Esistono valide ragioni teoriche per devolvere ad autorità indipendenti la politica monetaria, o la politica della concorrenza: ma un’autorità indipendente per la politica di bilancio sarebbe un’assurdità. Di più, trattandosi di un’autorità non consacrata dal voto popolare, sarebbe inaccettabile anche sul piano della rappresentanza democratica.
E qui si apre la prospettiva di una interessante “partita doppia”. Infatti Romano Prodi ha buone probabilità di essere il candidato premier dell’Ulivo alle elezioni politiche generali proprio nel 2006. Le sue chances di risultare vincitore saranno maggiori se l’attuale governo avrà scontentato l’elettorato che lo ha votato nel 2001, cioè se i risultati economici saranno deludenti. Se eletto premier a Roma, Prodi potrebbe dunque trovarsi nella necessità di negoziare, con il suo successore, l’interpretazione delle norme invocate da Prodi presidente a Bruxelles. A meno che, per l’epoca, la costituzione europea a cui si lavora ci faccia finalmente uscire dalla frizione inevitabile tra”tecnici esigenti” e “politici compromissori”.
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ottobre 4, 2002