L’approdo a una visione positiva della concorrenza può condurre l’Italia e l’Europa fuori dalle secche
La nascita del nuovo partito dei “democratici di sinistra” è stata collocata dall’onorevole D’Alema in una cornice delimitata da quattro angoli. Il primo è la consapevolezza delle storie diverse che confluiscono in questa formazione. Il secondo, una comprensibile fierezza per l’opera di risanamento avviata in Italia in questi anni, grazie al sostegno di queste forze. Il terzo un appello di fiducia al Paese con l’invito agli intellettuali che l’avevano abbandonato a tornarvi. Il quarto infine un distinguo nella politica estera e nella crisi irachena che è bastato all’onorevole Bertinotti per affermare che in questo almeno, c’è convergenza assoluta con l’onorevole D’Alema.
L’impressione, ascoltando D’Alema, è stata quella di una comprensibile soddisfazione – per i risultati europei che il Paese può conseguire – accompagnata però dal peso che ancora continua a esercitare una difficile eredità del passato. Non si tratta più di una visione della storia ingombrante, come quella lasciata dietro le spalle sette anni fa dal pci che diventava pds. Il nodo da sciogliere sta nella persistente ambiguità di significato implicita nell’argomento centrale usato da D’Alema a giustificare l’ancoraggio europeo dei “democratici di sinistra”: «C’è in Europa oggi – ha detto – un solo partito socialista europeo, di cui fanno parte Blair, i socialdemocratici tedeschi e noi».
Questa frase è d’effetto ma nella realtà continua a indicare non più filosofie contrapposte bensì soluzioni diverse a problemi analoghi. I socialdemocratici di Schroeder hanno dichiarato di sostenere la scelta tedesca a fianco di Washington sull’Iraq. I socialisti di Jospin hanno proposto, contro la disoccupazione, le 35 ore a parità di salario. Il New Labour di Blair propone di sostituire al Welfare il workshare, basato non più sull’assistenza ma sugli incentivi, affinché l’individuo non rifiuti il lavoro disponibile.
Come giustamente ha scritto giorni fa Gad Lerner, non basta prendere Blair a modello o addirittura lasciarsi sedurre da convergenze planetarie: occorre porsi il problema di che cosa si pensa che lo Stato debba fare per i cittadini. Su questo preciso punto il pse è diviso come è divisa l’Europa: è il problema del mercato. Il motivo di fondo di questa divisione è ciò che manca ancora perché l’aggettivo “democratico” compiutamente dia il senso e non sia solo un orpello alla scelta di sinistra.
Solo l’approdo a una visione positiva del mercato può condurre a ciò di cui non solo l’Italia ma l’Europa ha bisogno: che lo Stato, nel determinare le condizioni entro cui gli individui agiscono, fissi solo le medesime norme formali per tutti; in particolare – preciso io – garantisca il diritto di proprietà, e assicuri l’eseguibilità dei contratti liberamente stipulati dai cittadini. In apparenza oggi nessuno si oppone all’economia di mercato. Ridotta a testimonianza la negazione radicale di Rifondazione, l’opposizione prende più raramente la forma della sfiducia, più sovente invece quella della diffidenza.
Lo ha ricordato Eugenio Scalfari, rappresentando il mercato come un giardino fiorito che solo i costanti interventi del giardiniere impediscono si rifaccia giungla. Meglio allora – è l’implicito sviluppo del ragionamento – un giardino all’italiana, con sentieri ben tracciati e divieti di calpestare le aiuole, che un giardino all’inglese nel quale l’intervento del giardiniere è meno invadente e dunque meno rassicurante.
Non c’è una terza via tra economia di mercato ed economia pianificata, anche se la dimostrazione pratica delle tesi di Hayek e Mises s’è dovuto attendere l’epilogo di questo sanguinoso secolo.
Ma di fronte a questi riconoscimenti che oggi personalità e movimenti del centrosinistra sono prodighi a concedere, nei fatti è bastata la crisi dei mercati asiatici perché pronta e severa si alzasse la voce di chi chiede non già maggiore trasparenza e minori barriere, ma maggiori controlli; si avvertiva, nel tono, qualche Schadenfreude.
Insomma, che si tratti di Asia, di corporate governance o di antitrust, il sottinteso – la riserva mentale – di tanti riconoscimenti sembra essere il medesimo: il mercato è naturalmente selvaggio, dunque prima di cedervi bisogna definire le regole che lo imbriglino; il mercato è un luogo pericoloso, dunque bisogna mettere un angelo custode a fianco dell’ignaro che vi si avventura. Contro l’ideologia degli angeli custodi, lo si nota con rammarico, Giuliano Amato si è trovato quasi sempre solo a contrapporre la ricetta del nostro tempo, un tempo diverso da quello in cui si sono formati i tradizionali strumenti di equità così cari alle sinistre ma che oggi ottengono risultati opposti a quelli che li ispirarono.
E’ questa la ricetta che le assise di Firenze devono abbracciare. Una ricetta liberale, noterà qualcuno: e gli semprerà di avere avanzato un’obiezione. Al contrario solo l’ingresso deciso e convinto in questo recinto può costituire l’approdo per filoni culturali che hanno pagato, e fatto pagare, prezzi amarissimi alle illusioni che l’uomo ha nella storia e che lo Stato ha nell’economia.
La ragione per cui si sostiene che obbiettivi ed impegni siano assunti in un atto primario di politica economica è anche la necessita’ di correggere la negativa impressione delle polemiche delle settimane passate.
La diatriba sulla titolarita’ delle agenzie di promozione e sviluppo tra Tesoro e Industria non è stata appassionante, ma soprattutto ha autorizzato a credere che la politica di intervento nelle aree depresse possa ridursi a questione organizzativa. Le polemiche si sono nel frattempo smussate, ma resta l’impressione di grave inadeguatezza di tutte e due le impostazioni che si confrontano.
Secondo il Tesoro essenziale è la coerenza fra obbiettivi di finanza pubblica e sviluppo, garantita dall’avere al proprio interno il dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione, conseguente all’accorpamento del Bilancio, e a cui sono assegnati per legge politica regionale, investimenti pubblici ed infrastrutture, politica di coesione dell’Unione Europea.
Che in tal modo si assicuri il controllo delle spese è sicuro. Ma non sono poche n è poco rilevanti una serie di domande: qual è l’ammontare degli investimenti che si intende destinare alle aree depresse? quante provengono da Bruxelles, quante dal bilancio dello stato? quali criteri seguire per dare le opere in concessione e farle così finanziare da capitali privati? chi ha la responsabilità di proporre gli investimenti, il centro o la periferia? come sopperire quando manca la capacità di progettazione? chi fa la selezione dei progetti ed in base a quali criteri? chi verifica i risultati?
Vi è poi l’altra impostazione, quella che è sembrata per un momento essere la proposta del governo, prima che questi decidesse di evitare lacerazioni passando la palla al parlamento, in attesa magari, decantate le acque, di aggiungere una propria proposta di legge alle quattro su cui si sta esercitando la Commissione Bilancio del Senato. Impostazione che, nelle diverse varianti, in sostanza si riduce a un’aspettativa.
Quella che a risolvere i problemi delle aree depresse basti l’incremento di efficienza forse ottenibile unificando Itainvest, IG, SPI, Enisud e quant’altro, e l’assegnazione del tutto alle dipendenze del Ministero dell’Industria. E qui cio’ che preoccupa è l’inadeguatezza. Non di risorse – anzi, sull’attribuzione dei 3000 miliardi di plusvalenza Telecom si ribadiscono qui le piu’ ampie riserve -, ma di idee.
Di fronte alla carenza di infrastrutture, ai divari con altre aree europee quanto a costo dei fattori, livelli di imposizione, esternalità, si pensa che basti una banca di affari, qualche assunzione e un po’ di pubblicità? Il rischio è che, alla prima crisi, si finisca per supplire all’inadeguatezza progettuale “buttando soldi ai problemi”, e che si ripeta di una storia ben nota, quella di accorpamenti sfociati in potenziamenti, di razionalizzazioni e snellimenti tradottisi in sovrapposizioni di livelli organizzativi.
Questo è tutto quanto oggi c’ è sul tavolo: l’elenco dei compiti del dipartimento del Tesoro, e quattro progetti di legge di riordino degli enti di promozione. Serve un colpo d’ala. Il doppio obbiettivo del contenimento del deficit e del rientro del debito non contiene in s è implicitamente ogni altra scelta. Il tema degli interventi nelle aree depresse è politicamente indifferibile e logicamente inscindibile da quello del risanamento. Non basta enunciarlo in una risoluzione parlamentare: è nel DPEF che esso va incardinato.
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febbraio 13, 1998