dalla rubrica Peccati Capitali
Mettete una dozzina di persone intorno a un tavolo a parlare di Rai e subito salta su quello per cui «i partiti devono levare le mani da Viale Mazzini», quello che «solo un’azienda pubblica può fare Tv di qualità», quello che «prendiamo l’esempio dalla Bbc»: in ordine casuale.
I toni del dibattito saranno più sfumati se a discutere sono panel di «esperti», più bercianti se sono i soliti politici che approfittano della scadenza del cda Rai per strattonare il guinzaglio del «tutti insieme con Monti» e assestarsi a vicenda qualche morsicone: ma la sostanza è quella da 30 anni.
Eppure, il mondo è cambiato: nell’epoca dell’analogico la risorsa scarsa erano le frequenze, nel mondo del Web e del digitale lo sono i contenuti. Allora le frequenze venivano considerate bene pubblico, oggi i contenuti sono «pubblici» nel senso che si pretende che tutto quello che va sul Web sia gratuito.
Che senso ha parlare di canone, quando il copyright perde pezzi da tutte le parti? Che senso ha parlare di qualità necessariamente legata alla proprietà pubblica, quando gratis sono contenuti di pregio, perfino corsi di studi online che danno accesso a lauree in università prestigiose? Che senso ha sostenere che solo il pubblico non schiavo della pubblicità ci può dare prodotti di qualità, quando si chiede alla pubblicità di finanziare esposizioni d’arte e spettacoli lirici?
Modelli di business scompaiono, altri ne sorgono. Voler restare dentro il postulato per cui la Rai deve restare pubblica e finanziata dal canone, significa tagliarla fuori da ogni evoluzione. Anche le tabaccherie sopravvivono: ma non vendono più chinino di Stato.
marzo 20, 2012