Omissione di kamikaze

gennaio 26, 2003


Pubblicato In: Giornali, La Stampa

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L’appello italiano agli elettori israeliani

Già in generale bisognerebbe andarci con cautela e delicatezza con gli appelli al voto a cittadini di un altro Paese. Ai convinti, di un campo e dell’altro, è inutile parlare, lo insegnano fin dalla prima lezione gli esperti di comunicazione politica. E quanto a quelli che ancora non hanno deciso, il rischio è di provocare una reazione di fastidio o di rigetto a causa della presunzione, implicita in ogni appello da parte di uno straniero, di saperne di più di loro, del loro Paese, della loro storia; quasi a volersi porre come il fratello maggiore che ti insegna che cosa ti conviene.

Infinite sono invece la rete di rapporti, la stratificazione dei ricordi, la catena di associazioni mentali, da cui discende la decisione di voto. Se poi il destinatario dell’appello è un israeliano, la cautela dovrebbe essere decuplicata: per riguardo anche solo agli ultimi 50 anni di storia.
Non hanno avuto preoccupazioni di questo genere i promotori italiani della “Lettera aperta agli elettori israeliani”. Niente di male nell’invitare gli elettori israeliani “con tutte le forze della [loro] solidarietà e della [loro] passione civile a votare per il candidato Mitzna appoggiando il suo programma di pace”: dopotutto anch’io, come chiedo voti per la sinistra in Italia, posso coerentemente chiedere voti per la sinistra in Israele senza per questo mostrare alcuna presunzione.
Ma, nell’appello, la parola terrorismo, la parola kamikaze, la parola attentati non sono neppure nominate; i 721 morti e 5060 feriti israeliani dal settembre 2000 a oggi sono pudicamente sintetizzati come “totale insicurezza nelle vostre stesse città”; la responsabilità viene esclusivamente addossata al “premier uscente” e alla “sua politica di repressione violenta”.

“Perché l’appello raccolga consensi in Israele – scrissi testualmente in risposta alla sollecitazione a firmare l’appello – é utile, anzi necessario, che si condanni esplicitamente l’aggressione che subisce quasi ogni giorno Israele ad opera dei kamikaze, e a causa dell’incapacità di Arafat di controllare la situazione”. La mia osservazione non fu ritenuta né “utile” né “necessaria”: l’appello uscì, sull’Unità del 16 Gennaio, senza modifiche e con la mia firma.
Del che molto mi dolgo: non riguardo agli italiani che conoscono me, ma riguardo agli israeliani che conosco io. Riguardo in particolare ad alcuni di essi, a cui sono molto legato. Lasciarono l’Italia nel 1947, subito dopo la guerra patita e le persecuzioni scampate. Andarono in un kibbutz socialista, di quelli duri: c’era il deserto dove ora fiorisce un’immensa aiola di rose. Voteranno come sempre Labour. Mi vergogno quando immagino che cosa possono pensare di chi, sicuro nel proprio manicheismo, divide con facilità la repressione violenta e la reazione suicida; senza una parola per il dolore e la rabbia, la passione e la vendetta, per quel viluppo di logiche e di contraddizioni da cui dipendono, oggi in Israele, la vita e la morte. Mi vergogno perché penseranno che chi nelle sue tranquille case in Italia tranquillamente attribuisce ragioni e torti, più che a Israele, guarda all’Italia, e più che all’Italia, alle divisioni nella nostra sinistra. Di questo chiedo scusa a voi, Corrado e Shoshanna, Nella e Korci, ai vostri Naomi e Erela, Drori e Orna, e ai loro figli di cui neppure conosco più il nome. Shalom.

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