Parlare della vicenda Olivetti è per me, e per molteplici ragioni, difficile e anche duro. Ho vissuto l’emozione della notizia, ho seguito lo sfogo dei sentimenti, ho assistito al prevedibile consumarsi di qualche vendetta. Ma dedicando le mie energie ormai da tempo a problemi di interesse pubblico, impegnato come sono in particolare sul fronte delle strutture industriali e degli assetti economici del Paese, ritengo necessario contribuire con qualche riflessione che, prendendo spunto dalla vicenda dell’azienda di Ivrea, si estenda alla capacità concorrenziale, italiana ed europea, nei settori industriali di punta.
La storia dell’elettronica e dell’informatica in Europa si segnala per una straordinaria capacità innovativa. Il fax è stato inventato dalla Siemens; il primo personal computer è stato prodotto dall’Olivetti quando i creatori di Apple andavano alle elementari; il primo grande calcolatore transistorizzato è ex aequo di IBM ed Olivetti; quando venne prodotta, la Horizon, centro di lavoro a controllo numerico, era tra le prime al mondo.
Invece i risultati industriali sono stati deludenti, se non disastrosi: altri hanno colto il successo di queste innovazioni. Il tentativo di riunire le forze di Bull, Philips, Siemens e Id per dar vita ad un’industria europea di grandi calcolatori è presto naufragato. Bull è sopravvissuto grazie alla volontà colbertiana del governo francese, ICL è diventata la filiale europea di Fujutsu, Philips è uscita di scena, Aeg pure: sopravvive la sola Siemens, che ha incorporato Nixdorf, anch’essa incapace di consolidare un breve successo. Di Hermes, Schneider, Triumph Adler, Olympia si è persino persa la memoria.
All’Olivetti il gruppo di intervento del 1964 imponeva di di-smettere i grandi calcolatori, così paradossalmente obbligandola a sviluppare quell’informatica distribuita che si sarebbe poi affermata come architettura vincente. Cercato senza successo di sviluppare un proprio minicomputer, Olivetti aveva poi scelto di puntare tutto su personal e servizi informatici. Strategia giusta, a detta di tutti: ma il risultato sono cinque anni di perdite importanti e sei anni di costi di ristrutturazione.
Ad altri il compito di esprimere giudizi su quanto fatto dal gruppo dirigente: ma la diffusione del fenomeno suggerisce di non accontentarsi di sbrigative spiegazioni: quando fenomeni si ripetono con tanta regolarità in contesti diversi è giocoforza cercare di individuare i nodi strutturali che li accomunano.
I nuovi settori industriali sono caratterizzati da alto e continuo tasso di innovazione, competitività spinta, prodotti unificati per un mercato mondiale. Un’idea brillante deve rapidamente conquistare una quota importante di mercato; deve essere seguita da un continuo cambiamento di modelli; tutta l’azienda, dal progetto alla rete di vendita, deve adattarsi con flessibilità. E deve essere sostenuta da un mercato finanziario ampio e articolato: per selezionare le buone idee, per sostenerle nei primi passi, per finanziarne lo sfruttamento mondiale.
Tutte queste condizioni sono assenti in Europa. Rispetto al mercato americano, permeabile dalle Hawaí all’Alaska, quello europeo è unico solo dí nome, in realtà segmentato per istituzioni giuridiche, regimi fiscali, contratti di lavoro, discriminazioni non tariffarie, mentre le fluttuazioni delle ragioni di cambio rendono incerte le previsioni economiche.
Per raggiungere dimensioni mondiali le aziende europee sono indotte ad ampliare il catalogo. Anziché focalizzarsi, inseguono fatturati a sostegno di strutture centrali pletoriche che si autogiustificano per controllare attività complesse. Smantellare le vecchie strutture è costoso, distoglie energie gestionali, urta con resistenze interne ed esterne, sindacali e politiche. Mentre la Compaq realizzava una struttura produttiva e commerciale esattamente coerente con la propria idea di prodotto, Olivetti sí dissanguava di energie manageriali e finanziarie per riempire e poi chiudere fabbriche inutili: Barcellona, Norimberga, Friburgo, Parigi, Crema, Pozzuoli, Marcianise; oppure per riaddestrare la forza di vendita, per rincorrere una struttura di costi pari a quella dei propri concorrenti. È sintomatico che sul «Wall Street Journa» del 5 settembre, accanto ai severi giudizi sulla gestione Olivetti degli ultimi anni, si leggeva che IBM stava concludendo un ordine con la taiwanese Acer per la fornitura di 80.000 computer al mese nel 1997 e 1998: nessuna notizia di proteste sindacali.
Quanto è successo all’industria informatica europea, e ín questi giorni in Olivetti, è solo il primo segnale delle sfide cui va incontro chi opera nei mercati globali, senza protezioni locali; a chi è obbligato a finanziarsi sul mercato mondiale, dove i flussi sono regolati solo dai risultati attesi, e la fiducia accordata solo al loro puntuale verificarsi. Con cinismo si potrebbe osservare che ciò che è successo è solo che i pensionati del Milwaukee sí sono stancati di finanziare gli esuberí di Scarmagno.
Nell’attività industriale, come non esistono ricette per il successo, così non esistono condanne all’insuccesso. Ma deve essere chiaro che queste sono gare in cui già per piazzarsi occorre essere di grande livello: neppure un atleta superdotato può sperare di vincere con sacchetti di piombo alle caviglie. Al gruppo dirigente di Olivetti sta di valorizzare, anche con alleanze, una presenza espressa dai 10.000 Mld di prodotti e servizi che ogni anno Olivetti vende sul mercato. Questo è il patrimonio da salvare, senza sperare in trasfusioni finanziarie da altre iniziative: neppure le più interessanti riescono a remunerare, oltre al capitale di cui abbisognano, anche le perdite di altri settori.
Alle forze politiche e sindacali spetta distinguere le cause strutturali certe dagli errori gestionali presunti: di quelle più che di questi è loro — nostro — compito istituzionale occuparci in primo luogo. Senza scartare settoriali sinergie, bisogna bloccare il
rigurgito di proposte tipo «polo» informatico o soccorsi dalle partecipazioni statali, di nessuna utilità né per l’azienda di Ivrea né per l’economia del Paese. Bisogna soprattutto evitare che la vicenda Olivetti venga strumentalizzata da impenitenti statalisti per bloccare la liberalizzazione delle Tlc e riconfermare una visione dirigista e protetta dell’economia del Paese. Per dura che possa essere, la lezione di Ivrea deve essere accettata e compresa nelle sue implicazioni di fondo. Non farlo vanificherebbe le energie che, o per passione, o per ambizione, o, perché no?, per interesse, in tanti vi abbiamo profuso: e soprattutto í costi, personali e finanziari, che già tanti hanno pagato.
settembre 7, 1996