Qualunque sia l’esito delle votazioni, il consiglio che verrà eletto dalla prossima assemblea di Telecom sarà molto diverso dai precedenti, e anche molto diverso da quello della quasi totalità delle aziende italiane quotate: la nuova governance prevede la separazione tra i ruoli di presidente e amministratore delegato e richiede la maggioranza di consiglieri indipendenti.
Una governance pensata (anche) in previsione degli assetti proprietari che si verificheranno dopo l’annunciata uscita di Generali e Intesa da Telco: a quel punto Telecom diventerà una società scalabile. E scalata Telecom lo era già stata una volta, dopo la privatizzazione del 1997. E questo induce a fantasticare: “speriamo si possa dire «si tornò al passato e fu progresso»”.
A sperarlo è Vito Gamberale, candidato dalla lista Findim, e suo presidente in pectore, nell’intervista sul Sole 24 Ore del 26 marzo.
Capisco la nostalgia: monopolista in un mercato in crescita esplosiva, la Tim di Gamberale, quanto a utili, era una delle prime società di telefonia mobile al mondo. Però la sua nostalgia non credo che sia condivisa oggi dagli italiani che considerano naturale scegliere il loro gestore in un’offerta amplissima, per cui la portabilità del numero è un diritto acquisito, che manco ricordano quando per avere un allacciamento di linea fissa bisognava aspettare settimane: per chi di loro se ne ricorda quel passato è un incubo, per chi non l’ha conosciuto è età della pietra.
Telecom ha clienti, si aspettano sempre più servizi a prezzo sempre minore; quando Gamberale gli dice che, se sarà presidente, lo farà nello spirito del civil servant, si chiedono stupiti: mica saremo tornati alla benevolenza del birraio? Telecom ha azionisti, quando Gamberale gli dice che Telecom «deve aiutare il Paese a sentirsi più evoluto», si chiedono preoccupati: non stavamo parlando di dividendi?
Che ci siano due cordate a contendersi la guida di Telecom è senz’altro una cosa positiva, fornire analisi è mestiere (ben retribuito) dei consulenti, scegliere è diritto degli azionisti. Se qui si discute dell’intervista di Gamberale è solo per gli aspetti che trascendono le prossime vicende societarie di Telecom e riguardano invece il Paese e la sua cultura economica. Perché Gamberale, con l’esperienza maturata in tanti anni passati prima in Iri, poi alla guida del fondo F2i, pensa di aver successo con simili argomenti? Se pensa di convincere proponendosi come civil servant, è perché sa che nel Paese ci sono tanti che sognano una Rai come la Bbc, e pensano che il problema sia la corruzione e la soluzione un po’ di spirito missionario.
Se vanta di avere un piano strategico per Telecom, è perché sa che tanti, a dispetto delle esperienze fatte – che si tratti di aeroporti, o di energia, o di Mezzogiorno – credono ancora che lo Stato abbia capacità di prevedere e potere di provvedere. Se parla di «azienda strategica per il Paese», è perché sa che molti si lasciano ancora sedurre dal mito del national champion. Che nel Paese ci sia un terreno di cultura statalista e anti-impresa, diffidente sulle privatizzazioni, pronto ad accogliere critiche sistemiche e polemiche episodiche, Gamberale lo sa.
Sulle privatizzazioni, su quella di Telecom in particolare, ci siamo autoflagellati abbastanza. A farne le spese è stato il Paese, è tempo di voltar pagina. È tempo di dire forte che aver convinto Bertinotti a vendere tutta Telecom in un sol colpo è stato un capolavoro politico di Ciampi; che la modalità di un primo passaggio a un nocciolo duro individuato dal Governo, lasciando che sia il mercato, che dispone di una legge sull’Opa, a trovare nuovi assetti, è stata teorizzata da Draghi; che un capitalismo senza capitali può solo privatizzare ricorrendo al debito.
Alla guida di Telecom si è succeduto il meglio che avevamo, il meglio delle partecipazioni statali (Bernabè), degli imprenditori nuovi (Colaninno), di quelli blasonati (Tronchetti), del gotha della finanza (Telco); alla guida di Vodafone c’è un altro italiano (Colao): se il confronto ci mortifica, non ci sarà qualche ragione strutturale? Sono insufficienti gli investimenti o è insufficiente la domanda che li giustifica? Un’accusa molto diffusa quella di non fare investimenti, riguarda autostrade e alta velocità, Pmi e scuole, auto e aerei: per tutti la colpa è un’Opa a debito?
Creare un mercato concorrenziale là dove c’era il monopolio più intimamente intrecciato con la politica, è un’operazione difficilissima. Quando si devono cedere quote di mercato ai concorrenti, la competizione fa scendere i prezzi, le nuove tecnologie rendono obsolete quelle appena introdotte, i confini tra settori industriali si spostano, diritti individuali e responsabilità aziendali si ridefiniscono, e il processo di consolidamento assume proporzioni impensate, allora l’arma vincente è la velocità nel percepire i cambiamenti e la destrezza nel cavalcarli, non un piano strategico con cui farsi eleggere. Vale anche per le aziende: quando “tutto ciò che è istituito e stabile evapora, tutto ciò che è sacro viene sconsacrato” e “si è finalmente costretti a considerare con sobrietà il proprio posto nella vita, i propri rapporti reciproci”. Non c’è santo, guardare al passato non può essere progresso.
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