“Mi guida in questo momento una opposizione appassionata alla guerra in Iraq”. Furio Colombo è esplicito sulla ragione che lo spinge a ripubblicare oggi gli articoli su Kennedy che aveva già raccolto in volume 40 anni fa (L’America di Kennedy, Baldini Castoldi Dalai , aprile 2004, €14,40). L’America vera, l’America che per le sue “eccezionalità” è un paese diverso da ogni altro, è per Colombo quella del Mayflower, dei Federalist Papers, ammirata da Tocqueville e realizzata nella breve presidenza di John Fitzgerald Kennedy. “Don’t let it be forgot/ that once there was a spot/ for one brief, shining moment/ that was known as Camelot“. A distanza di tanti anni, le sue pagine conservano intatta la freschezza della passione con cui furono scritte.
“E’ vasta la distanza che separa l’America di Kennedy da quella – irriconoscibile – di Bush figlio e dei neoconservatori”; è la distanza che separa i moderati “che preferiscono la ragione alla violenza e percepiscono la potenza come un limite”, dagli estremisti “adoratori della potenza che fanno di essa il solo punto di riferimento della ragione”. Furio Colombo vuol trarre dal confronto la prova che condanni George W.Bush. Lo strumento delle “vite parallele” ben si presta a suscitare forti emozioni: “alcune di esse – scrive Vittorio Alfieri riferendosi al classico modello – come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro o cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato”. Ma è uno strumento che di necessità colloca i personaggi fuori dal loro tempo storico, in un luogo mitologico in cui le passioni sono assolute e le virtù modelli.
E’ stata invece una storia densa, quella vissuta dall’America e dal mondo nei 40 anni che separano Kennedy da Bush. Allora il problema che dominava la politica estera degli USA era il contenimento dell’espansionismo sovietico, il timore, dopo lo Sputnik, di essere sorpassati nella corsa allo spazio, un timore di cui si era fatto preoccupato interprete il senatore John Kennedy. Stava diventando chiaro che l’equilibrio del terrore atomico non garantiva più la sicurezza, e che per far fronte ad attacchi portati alla periferia dell’impero era necessaria una nuova dottrina di risposte flessibili e modulate. Sarà il repubblicano Ronald Reagan a dare soluzione definitiva al problema che aveva occupato l’America per mezzo secolo, e a vincere la guerra fredda. E sarà il democratico Bill Clinton a dare agli USA, con un periodo di crescita lunghissimo, l’incontrastato dominio economico e tecnologico sul mondo. Questa è l’”eccezionalità” degli Stati Uniti dei nostri giorni: ma per Colombo l’”eccezionalità” è quella, mitica, delle origini. Tra l’America colpita da un colpo di carabina a Dallas e l’America colpita dagli aerei a New York e a Washington, per Colombo, sembra non esserci nulla. Non v’è spazio, nella sua ricostruzione, neppure per gli eventi storici che hanno portato alla nascita del movimento neocon dalle costole della sinistra liberal americana di origine ebraica: la guerra arabo israeliana del 1967, con il conseguente isolamento di Israele sulla scena internazionale; la traumatica rottura della decennale alleanza tra gli ebrei americani e gli afroamericani sul fronte della lotta per i diritti civili, a seguito della nascita del movimento “Black Power”. Per Furio Colombo la storia salta dal mito di Camelot all’esecrazione del Cow Boy.
Quando si usa la retorica delle vite parallele, il rischio è di deformare la realtà dei fatti è di ricostruire il passato in modo inesatto. Succede proprio con le guerre di Kennedy, il cui confronto con la guerra di Bush dovrebbe fornire la prova per inchiodarlo. Colombo cita tre episodi: la Baia dei Porci, la crisi dei missili a Cuba, il Vietnam. E’ interessante verificare le sue ricostruzioni. Non certo per pignoleria, ma perché la cosa va diritta al cuore del libro: “mi guida in questo momento una opposizione appassionata alla guerra in Iraq”.
Baia dei Porci. Versione di Colombo: “un’invasione non nota al Presidente degli Stati Uniti [...]. Kennedy ha avuto il coraggio di non fare la guerra”. In realtà, il piano Bissel di uno sbarco a Cuba, preparato dall’Amministrazione Eisenhower, fu presentato a Kennedy l’11 Marzo. Per oltre un mese, fino al 17 Aprile, Kennedy partecipò a numerose riunioni operative, chiedendo fino all’ultimo momento sostanziali modifiche al piano. Kennedy era soprattutto preoccupato che qualche dettaglio potesse rivelare la partecipazione degli USA. E fu per questa ragione che preferì lasciar fallire la missione piuttosto che fornire l’esplicito sostegno della Marina e dell’Aviazione, temendo di dar luogo a una escalation. Ma Castro rimase sempre una spina nel fianco, quasi un’ossessione, per Robert ancor più che per John. Non si scartarono piani per assassinare il leader cubano, e si lavorò a lungo al piano Mongoose per rovesciarlo.
Crisi dei missili a Cuba. Colombo immagina un contrasto tra Kennedy e i suoi generali: “Il Presidente- racconta- vi proibisce di fare la guerra e vi ordina di disarmare le testate atomiche”. A ben vedere la presenza di missili nucleari a Cuba non avrebbe cambiato in modo sostanziale un equilibrio strategico basato sulla certezza di mutua distruzione; e missili a Cuba non erano per l’America una cosa molto diversa da missili Jupiter piazzati in Turchia per l’URSS. Ma il dispiegamento di missili, testate, batterie antiaeree, aerei da caccia a Cuba erano per gli USA un intollerabile problema politico. I militari avevano preparato diverse risposte: un’invasione per conquistare l’isola; attacchi aerei per distruggere le rampe; blocco navale (poi declassato a quarantena). Il Gen Curtis LeMay (modello di uno dei personaggi de Il dottor Stranamore di Kubrick) sosteneva con vigore il bombardamento massiccio: ma ovviamente nessuno si sognò di usare l’atomica (a un passo da Miami, poi!).
Vietnam. Per Colombo, l’intervento di Kennedy si limitò al “rovesciamento di una dittatura fascista”. In realtà Diem aveva dominato la politica vietnamese fin dagli accordi del 1954, era stato visto come un modernizzatore anticomunista, sostenuto sia da Eisenhower sia da Kennedy. Ma ora gli americani non approvavano la sua strategia militare e non si fidavano più di lui. Sapevano che si stava preparando un colpo per rovesciare il regime di Diem e del fratello Nhu, e la condotta indecisa di Kennedy di fatto diede luce verde al complotto. Egli fu molto colpito dall’assassinio di Diem e di Nhu, e disse di provare orrore per il modo i cui vennero uccisi. Questo avvenne tre settimane prima che Kennedy stesso venisse ucciso. Su quello che avrebbe fatto Kennedy se fosse rimasto in vita esistono infinite congetture: sta di fatto che durante gli anni della sua presidenza la presenza americana in Vietnam aumentò fino a 16.700 persone, con aerei, elicotteri e impiego di napalm per deforestazione.
Se delle guerre di Kennedy Colombo ci offre una visione romanzata, per quelle sui diritti civili è lui stesso a riconoscere che si trattò in larga parte di aspirazioni e di obbiettivi irrealizzati. Kennedy pensava ovviamente alla rielezione, e contava di realizzare le riforme nel suo secondo mandato. Colombo dà la colpa agli scontri con “un’opposizione glaciale che ha ritardato, mutilato o sospeso quasi ogni atto della Nuova Frontiera”. (Anche se l’accusa, mossa nel 1964, al corpo legislativo dello Stato di aver contrastato l’esecutivo, suona strana in chi, nel 2004 in Italia, denuncia il pericolo di regime e la dittatura della maggioranza).
A questo mito Furio Colombo è rimasto fedele per 40 anni. Credette che qualcosa di quell’ideale potesse inverarsi con l’Ulivo, e rispose alla chiamata di Romano Prodi. Ma in Italia le battaglie per i diritti civili le avevano fatte i radicali; ora si trattava di sostenere governi che avevano a che fare con privatizzazioni, debito pubblico, interventi militari; e che cercavano intese col “nemico” per varare un autentico rinnovamento costituzionale. Finché si presentò un eccezionale concorso di circostanze: Bush alla Casa Bianca, Berlusconi a Palazzo Chigi, Veltroni in Campidoglio, i DS senza segretario, il centrosinistra dilaniato dalle accuse per la sconfitta, la vittoria di Berlusconi vissuta come l’avvento di un regime. L’Unità da rilanciare fu una straordinaria occasione, che Colombo seppe cogliere con istinto e passione, fin da quando firmò il suo primo numero, il 28 Marzo 2001.
Le segreterie dei partiti del centrosinistra tentano, dopo la sconfitta, di ricostruirsi come opposizione di governo. Attorno si agitano i veltroniani delusi alla Mussi, la sinistra storica alla Grandi e Fumagalli, quella dura alla Salvi, quella operaista alla Cofferati, quella comunista alla Asor Rosa, quella giustizialista alla Flores d’Arcais, quella letteraria alla Tabucchi, quella irrequieta alla Vattimo; e il mondo variopinto dei girotondini. Il kennedismo idealizzato di Colombo è abbastanza lontano dalla storia italiana da poter costituire un punto di fuga per tutte quelle diverse componenti. Per saldarle, nonostante una concordanza politica e programmatica assai approssimativa, è necessario dar corpo al pericolo incombente di un regime, di Berlusconi ma anche di Bush, su cui sfogarsi in un “esibizionismo barricadero”: uno spettro buono per riesumare un altro mito di mezzo secolo fa, quello del CLN. Quello che Fabrizio Rondolino pensa derivi dalla conoscenza, in Colombo, “di tutti i tic e le idiosincrasie della sinistra italiana”, e che deliberatamente “ne coltivi i difetti peggiori”, é in realtà il risultato dell’incontro di un’illusione e di tante delusioni, e di una mitologia che vale a consolarle tutte.
Non c’è ambiguità in Furio Colombo: è perché il suo americanismo inossidabile è ancorato a un modello collocato fuori dalla storia, che esso riesce a diventare un mantello steso su tutti gli antiamericanismi, gli anticapitalismi, perfino gli antisionismi che hanno radici profonde in parte della sinistra italiana: tutti giustificati dall’opposizione a Bush.
Ho polemizzato duramente con l’Unità che, per fruire delle sovvenzioni governative, si qualifica come “quotidiano dei gruppi parlamentari DS” e poi sostiene una linea politica diversa e perfino ostile a quella della segreteria del partito. Ma non c’è contraddizione in Furio Colombo quando difende la sua libertà in nome del mercato, cioè del successo in edicola. E a ragione: perché l’Unità é il giornale forse più svincolato dalla proprietà, e, giornalisticamente, è un gran bel prodotto.
Ma ad una contraddizione Colombo non può sfuggire. L’America, che Kennedy governò, è il grande paese del capitalismo. Questa è oggi la sua “eccezionalità” costitutiva. Invece, la gran parte delle personalità e delle opinioni a cui Colombo quotidianamente offre la copertura del manto di Camelot nutre, verso mercato e capitalismo, o malcelate riserve, o aperte ostilità. Produce effetti molto diversi essere un liberal in America, nei cortei dei pastori e nei circoli degli intellettuali, e farlo in Italia, a capo di un giornale. E’ ben vero che non si può far colpa a Furio Colombo del riflesso automatico per cui la sinistra riformista guarda con più preoccupazione a che cosa avviene alla sua sinistra che al progetto di paese con cui conquistare la maggioranza degli italiani. Ma alla fine il risultato netto è di rendere più difficile l’affermarsi di una forza di governo che sappia far riprendere al Paese la strada dello sviluppo capitalistico, ripensare l’equilibrio tra le tutele da garantire e i meriti da premiare, ridefinire i confini dei ruoli dello Stato e dei privati. E all’occorrenza, fare le guerre giuste: come fece anche John Fitzgerald Kennedy.
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maggio 21, 2004