La vera distinzione è tra conservatori realisti e radicali sentimentalisti
I numeri non bastano per avere rilevanza politica. Lo si è visto in occasione della battaglia politica per sfiduciare il Governo: è vero, come ha detto Bersani e ribadito D’Alema, che i voti del PD sono comunque necessari per mandare a casa Berlusconi, ma dato che quella battaglia è stata tutta interna al centrodestra, ad essere evidente è stata l’irrilevanza politica del PD.
A ben vedere, prestare i propri numeri a strategie altrui è, per la sinistra italiana, piuttosto la norma. Rivoluzionario sarebbe il contrario, costruire una superiorità strategica indipendentemente dai numeri, tant’è che la definizione data da Veltroni del PD come partito “a vocazione maggioritaria” destò sorpresa al limite dell’incredulità.
Prima della caduta del Muro, i voti del PCI erano parsi il mezzo per assicurare stabilità a governi centristi, oppure, col nome di alleanza dei produttori, per controllare l’inflazione. Nelle elezioni del 1994, Alleanza Democratica aveva fatto affidamento su quei voti per dare consistenza al suo progetto riformista. Dini del ’95, l’Ulivo del ’96, l’Unione del 2006 furono tutti Governi in cui la forza numerica del PDS-DS fu messa al servizio di leader tutti (eccezion fatta per D’Alema) di diversa appartenenza politica e di strategie di diversa origine: pensioni, privatizzazioni, euro non sono piante che la sinistra aveva cresciuto nel suo giardino.
Venendo a questi giorni, il TTB (Tutto Tranne Berlusconi), come dire il grado zero di una strategia, è stato archiviato dai fatti. Saranno pure mentecatti, come dice D’Alema, coloro che non capiscono che Fini e Casini sono i naturali alleati della sinistra, ma i primi a cui spiegarlo pare debbano essere i diretti interessati, o almeno uno di essi; e anche in tal caso appare chiaro che in tale alleanza i numeri li porterebbe il PD, la strategia gli alleati. E mentre è dubbio che dietro le suggestioni vendoliane ci sia un proposta politica capace di parlare a tutto il paese, è molto probabile che l’adottarle determinerebbe la perdita di pezzi al centro e quindi la condanna a una lunga marginalizzazione.
Prendiamo ad esempio i temi della scuola, del lavoro, perché no?, della giustizia. Quali sono i blocchi che impediscono alla sinistra di proporsi in prima persona come portatrice di progetto maggioritario? Uno è la path dependence allo stereotipo di una geografia politica che allinea le preferenze secondo l’asse destra sinistra. Forse è prematuro il suggerimento di Ken Minogue, di sostituirlo con le polarità “conservatori realisti” e “radicali sentimentalisti”, ma è evidente che senza sparigliare il gioco, senza la libertà di attraversare confini la sinistra non ce la farà mai. L’altro è l’angoscia del tempo: è possibile che per veder sorgere nuove idee sia necessario attendere che emergano nuove personalità, ma il tempo diventa un assillo paralizzante, se cacciare Berlusconi è un’emergenza nazionale, e la priorità è costruire “un comitato di liberazione nazionale” (come scrive Carlo Galli riprendendo il frequentato tema). Non ci si può muovere liberamente, se lo spazio politico è attraversato dalla barriera dell’antiberlusconismo, se l’inaccettabilità morale è identificata con l’opposizione politica, se la priorità è depurare gli italiani dalla corruzione prodotta dal berlusconismo e dai miasmi della “videocrazia”. Sono questi i blocchi che costringono la libertà strategica della sinistra, e ciò proprio nella fase politica della fine del ciclo berlusconiano, in cui essa sarebbe più necessaria che mai. Ancora una volta la forza numerica della sinistra è posta a sostegno di strategie politiche non proprie.
Per colmare il vuoto di proposte della sinistra, per evitare le sue scelte incerte o contraddittorie, è necessario (anche se non sufficiente) che essa recuperi autonomia strategica, si liberi dalla subalternità all’antiberlusconismo. Questo, per ragioni di storie personali e di affinità ideologiche, continuerà a far parte della sinistra, insieme ai giacobini dell’IDV, insieme alle narrazioni emotive di Nichi Vendola. Una sinistra che pensi se stessa come maggioritaria nel Paese è quella che sa sussumere tensioni, retoriche, populismi, perfino intemperanze dentro le proprie strategie. Ma si rassegna a una vocazione minoritaria se si riduce a raccoglitore di voti al servizio di altre pregiudiziali e di altre priorità.
ARTICOLI CORRELATI
La nostalgia dei conservatori di sinistra
di Angelo Panebianco – Il Corriere della Sera, 29 dicembre 2010
dicembre 24, 2010