La tentazione di considerare la vicenda del decreto sulla carcerazione preventiva come parte di un lucido disegno di puro potere è fortissima: Berlusconi, una volta conquistato il comando, sarebbe ora solo preoccupato di consolidarlo, regolando i conti con gli altri poteri erzi. Con l’informazione, sostituendo il vecchio Consiglio di amministrazione Rai e mettendo sotto tutela il nuovo, di cui ora potrà revocare il mandato a suo piacimento; con i servizi, cambiandone i vertici e mettendo a capo di quello che risponde a Maroni un generale dei Carabinieri, dipendente quindi gerarchicamente dal fido Previti; con Bankitalia, intervenendo nella nomina del direttore generale; ora con la magistratura. Berlusconi starebbe cioè mettendo le basi per la trasformazione in regime del mandato che ha ricevuto dagli elettori. A tanto determinato attivismo su informazione, servizi, banca centrale, giustizia, si contrappone il piccolo cabotaggio legislativo, nella totale assenza di prov-. edimenti di un qualche livello progettuale.
Eppure c’è qualcosa che non convince pienamente in questa analisi. Che l’uscita da Tangentopoli fosse un tema delicato non poteva sfuggire a nessuno: il ricordo della sollevazione popolare contro il decreto Amato-Conso è ancora fresco nella memoria, e la doppia bocciatura di Gargani al Csm avrebbe dovuto indurre qualche riflessione. Se proprio si voleva levare ai giudici l’arma della carcerazione preventiva, si poteva seguire la strada ineccepibile di iniziare una serie di provvedimenti disciplinari sui casi più discutibili quando non indifendibili, una guerriglia che avrebbe assai nociuto alla credibilità di alcuni magistrati, e quindi di tutta la magistratura.
Anche la spiegazione che Berlusconi abbia agito in stato di necessità, per impedire sviluppi che stavano per coinvolgerlo direttamente, non regge all’analisi. Questo è il paese dai tanti misteri e dai pochi segreti: gli alleati-avversari ne avrebbero ben diversamente approfittato; e poi, se in un prossimo domani qualcuno vicino al presidente del Consiglio dovesse avere qualche disavventura giudiziaria, che stia in carcere o agli arresti domiciliari, il danno sarebbe ugualmente devastante.
Credo che la spiegazione debba essere diversa e rivelatrice in proposito mi sembra la dichiarazione da Trieste: Berlusconi ancora quel giorno riteneva di essere nel giusto, e per Berlusconi essere nel giusto significa interpretare correttamente desideri e aspettative della pubblica opinione. Secondo questa chiave di lettura, l’attacco alla Rai risponde a una diffusa scontentezza sulla gestione dell’emittente pubblica, la riforma dei servizi risponde al disgusto per le rivelazioni sul Sisde, l’attacco a Bankitalia è per tagliare con un mondo in cui l’influenza di Ciampi è ancora grande. Anche l’insofferenza verso le opposizioni e il loro ruolo istituzionale risponde alla richiesta di cambiare modi e tempi della gestione della cosa pubblica; perfino la sospensione della legge Merloni va incontro al desiderio di normalizzare e cominciare a lavorare.
I sondaggi, il suo intuito (o le sue passioni). devono avergli suggerito che questo desiderio di normalizzazione potesse riguardare anche il fenomeno che più di ogni altro ha determinato l’uscita dalla prima Repubblica. La pretesa di saper essere interprete del desiderio di cambiamento della gente, di saper consegnare loro quello di cui hanno bisogno. è proprio ciò su cui si regge la massima innovazione tecnica berlusconiana, l’approccio manageriale alla comunicazione politica.
A questa capacità è demandato di sostituire la funzione di mediazione politica svolta dai partiti della prima Repubblica; la constatazione che nell’occasione essa sia venuta meno può far sorgere dei dubbi: incominciando da quello sulla sua abilità a interpretare, si potrebbe arrivare a quello sulla sua capacità di realizzare.
Il pericolo, sia per chi ha sostenuto Berlusconi sia per chi vi si è opposto, è che ci si aspettasse una Thatcher e ci si ritrovi con un Luigi Bonaparte (toute proportion faite).
I sintomi incominciano a essere numerosi: si voleva la fine dell’assistenzialismo, e si assiste al personale intervento nella vicenda Sulcis; si volevano le privatizzazioni, e il decreto passato in parlamento dà al ministro del Tesoro poteri centralistici quasi assoluti; si voleva la fine dei partiti tradizionali, e si assiste alla evoluzione di Forza Italia in forme pseudo partitiche con regole interne e canali di finanziamento oscuri; si voleva la riforma fiscale e ci si propone l’en-nesimo condono; si voleva capacità decisionale da primo ministro e ci si ritrova con le insofferenze autoritarie da am-ministratore delegato.
Nonostante i segnali preoccupanti, ci ostiniamo a credere che a Berlusconi manchi il proposito di trasformare il suo successo in regime: il che non basta a escluderlo. Comunque attendiamo Berlusconi sui problemi reali. Per ricordarne alcuni: la regolamentazione del settore televisivo, le privatizzazioni come liberalizzazione dei mercati, il peso tremendo del debito pubblico, la riforma della pubblica amministrazione. Si tratta di problemi la cui soluzione richiederà certamente, come sempre è accaduto, anche grandi capacità di comunicazione, ma i contenuti della politica non si risolvono solo in esse.
agosto 3, 1994