Non congelare la Rai nei vecchi equilibri

ottobre 4, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


La soluzione al problema della proprietà Rai contenuto nella proposta di legge governativa “rappresenta un rischio che il centro sinistra non può correre”, scrivevo sul Sole due mesi e mezzo fa ( Il dilemma Rai: privata o lottizzata, 14 Luglio 2000). La maggioranza se ne è accorta, e il sen. Claudio Petruccioli, presidente della Commissione trasporti e Telecomunicazioni, ha proposto una modifica del ddl 1138 che pone la maggioranza al riparo da questo rischio.

Da dove nasceva il rischio che additavo? Il testo governativo prevedeva di conferire le azioni RAI già di proprietà dell’IRI a una fondazione di diritto privato; il suo Consiglio di Amministrazione doveva essere nominato dai Presidenti di Camera e Senato. In tal modo si sarebbe sancito che la RAI entra a far parte dello spoil system: chi vince le elezioni ha il diritto di nominare il vertice aziendale. Singolare che proprio quando la lancetta dei sondaggi punta sul centrodestra come vincitore delle prossime elezioni, il centrosinistra si apprestasse a consegnare all’avversario non solo il diritto, ma il dovere di gestire la RAI,: un regalo gigantesco.
“Se la RAI deve essere governata dal pubblico, scrivevo, che lo si faccia almeno in modo palese: i vertici siano nominati dal Parlamento in modo palese, con voto di lista”. E’ – all’incirca- quello che sta scritto nella proposta Petruccioli: il voto di lista, cioè la divisione in parti eguali tra maggioranza e opposizione, vale per i 4 consiglieri nominati dalle Camere e per i due eletti dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni; gli altri tre sono nominati rispettivamente dalla Conferenza dei Rettori delle Università statali, dall’Ordine dei Giornalisti, e dal Consiglio dei consumatori. Ma anche le nomine non parlamentari sono politiche, basta guardare che cosa sta succedendo per quelle riservate alla cosiddetta società civile nelle fondazioni bancarie: però la finzione serve a evitare di rendere palese quello che tutti sappiamo, cioè che il mantenimento del controllo politico è l’unica ragione per mantenere la proprietà pubblica in RAI.

La proposta Petruccioli ha incontrato il consenso di quasi tutte le forze politiche: è una spartizione salomonica che accontenta la politica, che della principale azienda italiana di comunicazioni è la matrigna. La prospettiva della cogestione indipendentemente dal risultato delle elezioni rassicura il centrosinistra e evita al centro destra, in caso di vittoria, lo spinoso problema di gestire un monopolio utile solo ad esporre Silvio Berlusconi a imbarazzanti accuse di conflitto di interessi. Pochi giorni prima il presidente Amato aveva indicato una diversa soluzione del problema: due reti vendute – aveva proprio usato questa parola, non quella di privatizzare, ormai divenuta ambigua – e una di proprietà dello stato, finanziata dal solo canone. Soluzione confermata ancora il giorno stesso dell’annuncio Petruccioli in un’intervista a Repubblica del sottosegretario alla presidenza Enrico Micheli. Resta la consolazione di trovarsi in buona compagnia: ma si conferma che la RAI gode di una specie di extraterritorialità rispetto all’azione di Governo.
Nessun accordo farà sparire le contraddizioni. Queste sorgono anche altrove in Europa: i canoni sono nel mirino di Bruxelles; alla antinomia tra esigere il canone e ricercare l’audience il settimanale Die Zeit dedicava un’intera prima pagina. Da noi ci sono le vicende che hanno portato il fondatore e padrone della televisione privata a diventare leader politico; ma il problema del conflitto di interessi non sparisce se, oltre al leader del Polo, ce l’hanno tutti i partiti, diviso con voto di lista. La proprietà pubblica poggia sul concetto di servizio pubblico, e questo è sempre più difficile da definire: insegue il sacro Graal di una qualità che non si sa chi dovrebbe definire e misurare, e intanto corteggia gli indici di ascolto. Se essenza del servizio pubblico è il pluralismo dell’informazione, questo lo assicurano sia le TV private che quelle pubbliche.
Ma è con la tecnologia che la contraddizione diviene definitiva. Tra pochi anni – forse 4, certo 6- diversi paesi avranno spento l’ultimo televisore analogico: e con il digitale nulla sarà più come prima.

Col digitale salta il nesso univoco tra canale e programma, e quindi il presupposto all’integrazione verticale del modello operativo del broadcaster; cambia il modello di business, ci saranno pochi network operator e molti service provider, e questi a loro volta distinti dai content provider; aumenterà il numero degli operatori che hanno chance di entrare nel mercato, e quindi cadrà “l’ultimo argomento rimasto per giustificare una qualche riserva alla mano pubblica – la confezione di contenuti cognitivi sedicenti di qualità – in visibile contrasto sia con il principio di sussidiarietà sia con il rigetto della figura di Stato pedagogo che costituiscono entrambi parte essenziale della matrice ideologica UE” ( A.Pilati su Beltel).
Seguire gli sviluppi di queste evoluzioni richiederà capitali e alleati, e il controllo pubblico pone ostacoli a trovare gli uni e mette limiti al reperimento degli altri. Un consulente che, per un’azienda in procinto di affrontare un simile cambiamento, proponesse di farla gestire da un CdA lottizzato e di sottoporre entrambi alla vigilanza di una Commissione parlamentare, sarebbe giudicato dissennato.

Nessun accordo può fermare l’orologio, oscurare i satelliti, chiudere le frontiere ai prodotti culturali. Si parta dunque dalla proposta Petruccioli, ma si eviti tutto ciò che ostacola l’evoluzione e lo sviluppo della nostra maggiore azienda di comunicazioni, si lasci la porta aperta alla soluzione del problema che condiziona la nostra politica.

La cosa è possibile. La proposta Petruccioli ha il merito di aver scelto, per la Holding a cui apportare le azioni RAI di proprietà dell’IRI in liquidazione, la forma della società per azioni e non quella della fondazione, evitando di sospendere per sempre la RAI in un limbo di autoreferenzialità, come insegna l’esperienza delle Fondazioni bancarie. Occorre fare ancora un passo avanti: il gruppo Rai assuma la struttura di una Holding articolata su tre subholding. Una per l’area reti, – chiamamola Subholding–1-2-3 – che possiede le tre reti nazionali; area tecnologica, con RAIway; area nuovi media, per ora con RAISat, domani con le società operanti nel mondo del digitale. A sua volta la Subholding 1-2-3 dovrebbe dar luogo a tre società di rete.
La proposta Petruccioli vuole dare ai partiti la garanzia di continuità del controllo sulla attuale emittenza televisiva, cioè delle tre reti RAI? E allora sia solo la subholding reti a essere gestita dal consiglio di amministrazione “politico” di nove membri. E invece si lasci che il resto dell’azienda sia gestito da un consiglio di amministrazione tecnico nominato dal Tesoro.
Quanto alle partecipazione dei privati, è inevitabile che si ponga in legge che, nelle società che fanno capo alla “subholding 1-2-3” il capitale privato non possa superare il 49%. Ma almeno si ponga un limite temporale, di 3 anni, passati i quali il limite decade a meno che non venga rinnovato per legge. E si eviti di porre un limite alla quota di partecipazione dei privati a tutte le altre società, sia quelle tecnologiche che quelle che operano o opereranno nel settore delle nuove tecnologie digitali. Non mettere un limite non significa decidere di cedere il controllo, ma lasciare che sia la Holding a decidere. Va bene la “extraterritorialità”, ma dopotutto la Holding fa capo al Governo.

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