Dibattito sul radicamento sociale dei DS
Deve aver toccato una corda sensibile nella sinistra l’articolo di De Rita (Corriere della Sera del 17 Luglio) in cui la accusa di avere perso il radicamento sociale, se ha provocato tanti e così importanti interventi. In fondo é facile ribattere che la società italiana non si lascia più analizzare in termini di “blocchi sociali di riferimento” con confini e interessi bene definiti, ognuno di noi essendo nello stesso tempo produttore, consumatore, risparmiatore, possidente. E’ facile obbiettare che é semmai la destra a non avere un’idea della società, che le consenta di dare contenuti alla generica prospettiva di accrescimento dei redditi individuali fatta balenare nel 2001 e con cui aveva vinto.
Al confronto, la sinistra appare dotata di antenne meglio accordate per raccogliere i segnali che vengono dall’Italia come é fatta: i Chiamparino e i Veltroni, gli Illy e i Soru hanno radicamenti solidi, e i commenti di Pierluigi Bersani, o di Nicola Rossi rivelano capacità di portarli a sintesi.
La ragione del “successo” di De Rita é che lui parla di “blocco sociale di riferimento”: e la mente va al modo di aggregare il blocco politico, cioè al nervo scoperto della sinistra. E’ perché non si vede soluzione a questo problema che “l’orologio del centrosinistra” appare fermo. Il ritardo c’é, e non dipende solo dal sistema politico che ha retto l’Italia in questi ultimi anni. Se a destra c’é il potere “padronale” di Berlusconi; a sinistra si é risposto con la richiesta di una Union Sacrée. Se a destra la presa cementizia riesce a contenere divaricazioni su temi di fondo – i poteri, del premier, nella coalizione, nel decentramento federale -, all’opposizione la scelta della strategia dell’antiberlusconismo ha portato alla ricerca del voto marginale a sinistra. Sull’art.18 Cofferati riempie S.Giovanni; sull’Irak nelle piazze non ci sono neppure i leader DS. Alla fine, sono diventate oggettive le forze che spingevano il timone a sinistra.
Oggi, di fronte ai problemi che il centro destra ha lasciato aperti o ha aperto, il paese esprime una richiesta diversa: maggiore sicurezza, maggiore protezione, servizi con standard garantiti, ammortizzatori sociali efficienti. E a sinistra sono in molti pronti a battersi con energia perché questi temi stiano al primo posto nel programma: dopotutto sono nel DNA della sinistra. Questo é il senso vero dell’ammonimento di De Rita: oggi dobbiamo fare i conti con l’urgenza di queste richieste. Tutti, sia noi, sia quanti, dal mondo dell’industria o della finanza, chiedono a noi, oggi, le riforme di cui il paese, da tempo, ha bisogno.
Gli indici di fiducia rilevati dall’ISAE sono ritornati ai bassi livelli delle grandi crisi degli anni 90: eppure la situazione é molto diversa da quella di allora. Il paese é incline alle autofustigazioni: e lo dimostrano molte reazioni alle manovre finanziarie messe sul tavolo dal nuovo Ministro dell’Economia. Di questa depressione psicologica si deve tener conto, nel disegnare una piattaforma che dia fiducia. La sinistra oggi non può essere solo l’interprete dei rigori di Maastricht: non é il rigore il certificato della virtù, ma la crescita. Ma non si può chiedere, a chi a sinistra si é battuto per il mercato, di fare miracoli. Se Michele Salvati oggi propone di impegnarsi in una scuola per formare quadri politici, non é che abbia cambiato idee.
Il fatto è un altro. Respinta l’idea di radicamenti sociali cogenti e obbligati, come De Rita chiede alla sinistra, assunto che il berlusconismo ha incarnato la guida di un’Italia imperfettamente bipolare e che l’antiberlusconismo é stato il collante prevalente dell’opposizione, che ha condotto alla spasmodica ricerca del voto marginale a sinistra come sine qua non per la vittoria, oggi é giocoforza accettare che il leader futuro e candidato a governare per la sinistra italiana sia più uno Zapatero che un Kerry. Il primo ha trionfato sull’onda dell’umore mercuriale di un paese tradito nella fiducia a una svolta decisiva come le bombe di Atocha, ma il candidato aveva costruito la sua leadership su una aggregazione estremamente convenzionale delle istanze deluse da Aznar e dal Partido Popular in termini di sicurezza sociale e decentramento (anche se in Spagna quest’ultimo tema ha un sapore opposto che in Italia). A Kerry, in America tribù intere di spin doctor raccomandano su guerra al terrorismo, Iraq ed economia di non allontanarsi dal mainstream per levare a Bush i “suoi” voti. Quando i Salvati si rifugiano nel proporre le scuole quadri è perché sanno che la ricetta Kerry per l’Italia di oggi non può funzionare. La somma in piazza dei movimenti è stata ciò che ha gettato le premesse perché un Cofferati tornasse a vincere a Bologna, e perché un esponente dell’apparato come Penati strappasse la provincia di Milano a Berlusconi. Ed oggi che Berlusconi si è ferito a morte, noi non abbiamo altro su cui costruire.
Ora, a celebrare le nozze non tra Cadmo e Armonia, ma tra Nestore e Aiace a sinistra, tra la saggezza di governo consapevole di ciò che avviene nei mercati mondiali e di ciò che serve per incrociare la domanda che viene dall’insieme delle corporazioni – non a caso le chiamo così, purtroppo – economiche italiane, e la forza pugnace di chi ha abbassato la celata per sconfiggere in ogni polemica di parte un Berlusconi sin qui invincibile, dovrà essere un Odisseo che serve al centrosinistra. E’ colui che realizzerà il patto tra riformisti e sinistra radicale. Inutile pensare a un patto che ne faccia a meno; ma sbagliato nascondersi che la partita si gioca sulle condizioni di questo patto. La gara tra Prodi e lo stato maggiore DS, per candidarsi a sottoscrivere il patto con la sinistra antagonista, è il concorso a premi per chi potrà oggi e domani candidarsi a essere leader di governo. Ed é facile prevedere che sarà un Ulisse molto più diffidente verso le ragioni del mercato e dell’impresa di quanto generose aperture recenti possano fare immaginare. Quelli che la pensavano come me hanno sin qui perso, e sarebbe irrealistico disconoscerlo. Abbiamo più filo da tessere rispetto a quando Berlusconi era capo indiscusso, è vero, lo sappiamo e ne approfiitteremo. Ma non è colpa nostra, di noi riformisti intendo, se non possiamo essere Blair perché l’aspirante Thatcher ha fallito in ogni sua maggiore ambizione.
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agosto 2, 2004