Nella foto ulivista mancano gli eretici

luglio 21, 2006


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Invece di fare a cazzotti, i riformisti riscrivano la prima parte della Costituzione

Mai come ora, scrive Paolo Franchi nel suo editoriale di lunedì, è necessario “mettere a fuoco e far valere il punto di vista riformista”. Per farlo, si chiede “con chi dovremo fare a cazzotti e per che cosa”. Io propongo un criterio di selezione e identità meno manesco ma più radicale: la volontà di cambiare la prima parte della Costituzione.

Il ragionamento parte, come usava una volta, dall’analisi della fase. La maggioranza, costretta allo stallo dai numeri al Senato, lancia ballons all’opposizione, col miraggio di un allargamento che non ne cambi il profilo politico; il Governo, che con i decreti Bersani-Visco pareva aver trovato la strada per unire prognatismo liberista e sagacia amministrativa. è costretto all’armistizio da tassisti e avvocati, e al ripiegamento sul fronte dell’IVA. Il cemento dell’antiberlusconismo si sta rapidamente sgretolando, il prodismo è il collante della coalizione: ma l’insostituibilità del leader lo sottopone all’usura di dover essere il luogo su cui si scaricano tutte le tensioni. C’è un impegnativo progetto politico, il Partito Democratico: ma già si avverte il “rischio della sazietà” ( Ilvo Diamanti su Repubblica). E’ incerto se vedrà la luce, se sarà una federazione per governare o la forza politica nuova a cui Michele Salvati dedica tanta passione. Quello che qui rileva è l’autorappresentazione che emerge dall’alluvionale produzione di documenti, la definizione che i soci fondatori dànno della propria identità: il progetto si fonda sulla convergenza delle culture che hanno fatto la storia politica dell’Italia, quella socialista, quella cattolica, e quella azionista e liberal democratica. La fotografia è quella: ed è da lì che conviene partire per individuare ”con chi dobbiamo fare a cazzotti”.

Con una domanda: sicuri che in quella foto non manchi nessuno? E quelli che non rivendicano nessuna di queste eredità, dove stanno? Non c’è posto, in quella autodefinizione, per quanti hanno avuto simpatia per i socialisti ( e, se per quello, anche per i comunisti), ma che socialisti non sono mai stati; per quanti hanno attenzione e rispetto per i cattolici, ma sono, grazie a Dio, atei; per quanti, magari discendendo per li rami dall’azionismo, ne hanno avvertito per tempo limiti e pericoli. E per quelli a cui si arriccia il pelo al sentire che a “liberale” si consente di andare in giro solo se tenuto per mano da “democratico”. Per questi non c’è posto, e, perché sia chiaro che non si tratta di una dimenticanza, si dice chiaro e tondo che il Partito Democratico non sarà il partito dei moderati. Si dovrà far posto, invece, alla “società civile”: a chi non è riuscito a sostituire un’intera classe politica, verrà consentito di sederlesi accanto. Con il che, ai tre riformismi “classici”, si aggregheranno plebiscitarismo e giustizialismo, presidenzialismo e assemblearismo, e naturalmente i “valori” e i loro sacerdoti.

“Far a cazzotti”? Non esageriamo. Ma andar fieri delle proprie “eresie”, quello sì: che si tratti di economia o di giustizia, di politiche sociali o di politica estera. Quanto a me, di eresie non me ne sono persa una, nei 12 e più anni passati, finché per porvi fine è stata azionata la mannaia delle due legislature, e non sono stato ricandidato. Ma ho ricavato prove inoppugnabili del consenso che riscuote uno spazio politico che pone al centro di ogni progetto l’individuo e i suoi diritti, che pensa che obbligo della società sia valorizzarli tutti e il premio al merito sia il modo per assicurare libertà e eguaglianza. Che esige dall’amministrazione del Paese di lasciare spazio al gioco degli interessi con un minimo di norme, e vuole che i conflitti siano affrontati e non seppelliti elevando la concertazione a regola generale. Che vede nell’Europa uno spazio di libertà, non equilibrio di egoismi e protezioni nazionali; e nel rapporto con il mondo anglosassone un elemento costitutivo della nostra identità occidentale. Che, osando il sacrilegio, ritiene che tra RAI e Mediaset, sia la prima ad essere anomala, e che non sia colpa delle televisioni se la carta stampata raccoglie meno pubblicità che in altri Paesi. Che vede lucidamente come, in un sistema bipolare, gli assetti definiti dalla Costituzione del 48 – il bicameralismo perfetto, il parlamentarismo, i poteri dell’esecutivo e del premier – debbano essere rivisti in profondità.

Questo spazio politico appartiene alla sinistra, e conviene alla sinistra: senza equivoci e senza ideologie, per logica e per interesse.

Appartiene alla sinistra perché lì pare esserci un personale politico più valido, (e che lo diventerebbe ancora di più con contaminazioni “eretiche”). Perché il governo Berlusconi non solo ha deluso, ma ha screditato le ragioni liberali, sfruttandole senza realizzarle e usandole senza crederci. E perché bisognerà pur far qualcosa per rimediare alle presunzioni fatali, ai soli ingannatori, alla tirannide della ragione di cui parla Isaiah Berlin, alle tante idee sbagliate inculcate per anni nel popolo di sinistra. Se a destra c’è un campo da rendere nuovamente fertile, a sinistra c’è un campo da bonificare: e chi può riuscirci se non chi sta a sinistra?

E conviene alla sinistra, a quella che si autoritrae nella fotografia, far posto a chi si colloca nello spazio politico di cui ho cercato di indicare alcuni punti di riferimento. Certo che si tratta di una minoranza numerica, ma può decidere del risultato; può farlo senza esigere prezzi politici, perché può spostare elettori, evitando di dislocare apparati e pezzi di partiti. A chi conviene “fare a cazzotti”?

Il concetto di riformismo, scrive Franchi, si è fatto evanescente. E allora, se il nome non basta più a identificare e anzi rischia di produrre equivoci, io propongo per “questo” riformismo uno stendardo da aggiungere alla bandiera comune. Sopra c’è scritto: riforma della prima parte della Costituzione.

Perché lì è l’origine di tutto, lì è nato e si è – felicemente, per quei tempi- realizzata la sintesi delle tre culture politiche, socialista, cattolica, azionista, che i partiti dell’Unione ancora tengono come proprio faro. Ma sono passati 60 anni, è cambiata l’Italia, è cambiato il mondo. “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” continua a recitare l’articolo 1, quando le aspirazioni, le visioni e i comportamenti della larghissima parte degli italiani sono lì a contraddirlo. Per non parlare degli articoli dal 35 al 47, dedicati ai rapporti economici, di cui Tommaso Padoa Schioppa scrisse che “riflettono un misto anacronistico di sfiducia nelle forze del mercato e di ottimismo sulle possibilità del governo; che furono redatti in modo da non essere incompatibili neppure con un programma di sovietizzazione dell’economia”. E’ solo perché “il diritto comunitario ha già largamente sciolto l’ambiguità che li pervade” che l’Italia, da Paese sconfitto è diventato membro del G7, e ora, da Paese industriale sta entrando, con qualche ritardo, nell’economia dei servizi. Ma resta lo scarto tra la lettera della Costituzione del ’48 e una visione moderna e autenticamente liberale della società.
Non si tratta, è evidente, di un programma politico, e non c’è un termine per la sua attuazione. Ma quando sono necessari sintesi che qualifichino e simboli che identifichino, anche il solo sentire l’esigenza di cambiare la prima parte della Costituzione, di adeguarla al presente e al futuro del Paese, é ciò che a mio avviso meglio esprime “in nome di che cosa” si è riformisti.

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di Giorgio Rebuffa, 25 luglio 2006

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