Nel Pacifico Clinton stringe la mano ai cinesi

novembre 16, 1994


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


I 18 Paesi dell’Apec, la coope­razione economica pacifico-a­siatica, hanno raggiunto un ac­cordo per arrivare gradual­mente alla liberalizzazione del commercio entro il 2020.

Che cosa hanno in comune gli Stati Uniti e il Papua Nuova Guinea? Entrambi sono membri dell’Apec, acronimo che sta per Forum per la coopera­zione economica dell’Asia e del Pacifico, che ieri ha iniziato, a cin­que anni dalla sua costituzione, il suo secondo meeting informale in Bogor, Indonesia, con la parteci­pazione del Presidente americano.

L’obiettivo è quello di trovare il modo di ridurre i conflitti com­merciali in un’area che sta cono­scendo il più rapido sviluppo in­dustriale del mondo, e di favorire così una crescita ordinata degli scambi commerciali: già oggi le economie dei 18 Paesi dell’Apec contribuiscono per circa il 50% del Pil mondiale, alla fine del secolo la percentuale aumenterà al 60. La bozza che i partecipanti si sono trovati sul tavolo negoziale preve­de l’eliminazione di ogni barriera tariffaria antro il 2020 per tutti, ma già entro il 2010 per le nazioni più sviluppate: le altre grandi aree regionali, l’Ue tra queste, sarebbe invitata a fare concessioni per ac­celerare il processo multilaterale di liberalizzazione.

Ma al di là di queste generiche intenzioni, molti sono gli elementi di divisione, Incominciando dalla natura stessa dell’Apec, che per al­cuni dovrebbe avere poteri deci­sionali, per altri essere solo il luo­go di discussioni informali con gli Usa, il maggiore tra i partners commerciali dell’area.

Una prima serie di difficoltà og­gettiva sta nell’enorme differenza di dimensione e di livello di svi­luppo dei partecipanti. Papua Nuova Guinea ha un reddito pro-capite che è 1/25 di quello del Giappone, ed una popolazione che è 1/300 di quella della Cina. Le na­zioni più sviluppate, come l’Au­stralia e la Nuova Zelanda, spingo­no per accelerare i tempi; altre, come la Malaysia, temono la pre­senza dominante dei Paesi occi­dentali, in primo luogo l’America.

Il secondo ordine di difficoltà è dato dai sovrapporsi di iniziative volte a liberalizzare gli scambi. Il trattato che istituisce il Wto, l’Or­ganizzazione mondiale per il com­mercio, che deve sostituire il Gatt, e alla cui direzione generale è can­didato il nostro Ruggiero, non è sta­to ancor approvato dal Congresso

americano (in Italia è passato al Senato ed è in attesa dell’approva­zione da parte della Camera). Non si vorrebbe interferire in un pro­cesso che non è senza incognite. Vi è poi anche l’Asean, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico ed alcuni preferirebbero che pri­ma i suoi sei membri si accordas­sero per dar luogo ad un’effettiva integrazione in area di libero scambio, per poter discutere con gli Usa da una posizione di mag­gior forza.

Il terzo ordine di problemi è co­stituito dai numerosi contenziosi tra gli Usa e molte nazioni dell’a­rea: la Cina ha annunciato che «sta perdendo I i pazienza» per sapere se sarà ammessa a far parte del Wto, e sostiene che gli Usa stanno usando a fini commerciali l’argo­mento dei diritti umani. La Cina è anche il migliore, forse l’unico, al­leato della Corea del Nord, gli Usa della Corea del Sud. Le pressioni Usa sul Giappone per ridurre il suo surplus di bilancia commerciale, oggi di 60 miliardi di dollari all’an­no, forzandolo ad aprire i suoi mercati ai prodotti ed ai servizi americani, danno luogo periodica­mente a momenti di acuta tensio­ne, che si ripercuotono anche sui mercati dei cambi.

A questi problemi si sono ora aggiunte ragioni di politica inter­na americana, dopo la sconfitta dei democratici nelle elezioni di mid-term. Alcuni pensano che la maggioranza repubblicana nelle due Camere sarà favorevole ad ogni misura di apertura dei mer­cati. Ma la sconfitta di Clinton è attribuita alla sua incapacità ad affrontare i problemi di politica interna: i repubblicani potrebbero quindi essere indotti a sfruttare questa sua debolezza e a presen­tarsi con misure atte a proteggere i lavoratori americani dalla concor­renza da parte di Paesi a basso co­sto del lavoro. Ma nonostante questi problemi il vertice di Bogor sarà, nella migliore delle ipotesi, un altro piccolo passo verso un li­bero e ordinato sviluppo dei com­merci mondiali.

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