I 18 Paesi dell’Apec, la cooperazione economica pacifico-asiatica, hanno raggiunto un accordo per arrivare gradualmente alla liberalizzazione del commercio entro il 2020.
Che cosa hanno in comune gli Stati Uniti e il Papua Nuova Guinea? Entrambi sono membri dell’Apec, acronimo che sta per Forum per la cooperazione economica dell’Asia e del Pacifico, che ieri ha iniziato, a cinque anni dalla sua costituzione, il suo secondo meeting informale in Bogor, Indonesia, con la partecipazione del Presidente americano.
L’obiettivo è quello di trovare il modo di ridurre i conflitti commerciali in un’area che sta conoscendo il più rapido sviluppo industriale del mondo, e di favorire così una crescita ordinata degli scambi commerciali: già oggi le economie dei 18 Paesi dell’Apec contribuiscono per circa il 50% del Pil mondiale, alla fine del secolo la percentuale aumenterà al 60. La bozza che i partecipanti si sono trovati sul tavolo negoziale prevede l’eliminazione di ogni barriera tariffaria antro il 2020 per tutti, ma già entro il 2010 per le nazioni più sviluppate: le altre grandi aree regionali, l’Ue tra queste, sarebbe invitata a fare concessioni per accelerare il processo multilaterale di liberalizzazione.
Ma al di là di queste generiche intenzioni, molti sono gli elementi di divisione, Incominciando dalla natura stessa dell’Apec, che per alcuni dovrebbe avere poteri decisionali, per altri essere solo il luogo di discussioni informali con gli Usa, il maggiore tra i partners commerciali dell’area.
Una prima serie di difficoltà oggettiva sta nell’enorme differenza di dimensione e di livello di sviluppo dei partecipanti. Papua Nuova Guinea ha un reddito pro-capite che è 1/25 di quello del Giappone, ed una popolazione che è 1/300 di quella della Cina. Le nazioni più sviluppate, come l’Australia e la Nuova Zelanda, spingono per accelerare i tempi; altre, come la Malaysia, temono la presenza dominante dei Paesi occidentali, in primo luogo l’America.
Il secondo ordine di difficoltà è dato dai sovrapporsi di iniziative volte a liberalizzare gli scambi. Il trattato che istituisce il Wto, l’Organizzazione mondiale per il commercio, che deve sostituire il Gatt, e alla cui direzione generale è candidato il nostro Ruggiero, non è stato ancor approvato dal Congresso
americano (in Italia è passato al Senato ed è in attesa dell’approvazione da parte della Camera). Non si vorrebbe interferire in un processo che non è senza incognite. Vi è poi anche l’Asean, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico ed alcuni preferirebbero che prima i suoi sei membri si accordassero per dar luogo ad un’effettiva integrazione in area di libero scambio, per poter discutere con gli Usa da una posizione di maggior forza.
Il terzo ordine di problemi è costituito dai numerosi contenziosi tra gli Usa e molte nazioni dell’area: la Cina ha annunciato che «sta perdendo I i pazienza» per sapere se sarà ammessa a far parte del Wto, e sostiene che gli Usa stanno usando a fini commerciali l’argomento dei diritti umani. La Cina è anche il migliore, forse l’unico, alleato della Corea del Nord, gli Usa della Corea del Sud. Le pressioni Usa sul Giappone per ridurre il suo surplus di bilancia commerciale, oggi di 60 miliardi di dollari all’anno, forzandolo ad aprire i suoi mercati ai prodotti ed ai servizi americani, danno luogo periodicamente a momenti di acuta tensione, che si ripercuotono anche sui mercati dei cambi.
A questi problemi si sono ora aggiunte ragioni di politica interna americana, dopo la sconfitta dei democratici nelle elezioni di mid-term. Alcuni pensano che la maggioranza repubblicana nelle due Camere sarà favorevole ad ogni misura di apertura dei mercati. Ma la sconfitta di Clinton è attribuita alla sua incapacità ad affrontare i problemi di politica interna: i repubblicani potrebbero quindi essere indotti a sfruttare questa sua debolezza e a presentarsi con misure atte a proteggere i lavoratori americani dalla concorrenza da parte di Paesi a basso costo del lavoro. Ma nonostante questi problemi il vertice di Bogor sarà, nella migliore delle ipotesi, un altro piccolo passo verso un libero e ordinato sviluppo dei commerci mondiali.
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novembre 16, 1994