Questa volta, si spera, nessuno vorrà ululare al fallimento di mercato. Si tratta ovviamente di Monte Paschi di Siena. L’intervento pubblico – sotto forma di ricapitalizzazione preventiva – è reso oggi necessario per rimediare ai danni prodotti da decenni dalla partecipazione pubblica: infatti di nomina pubblica è la maggioranza dei consiglieri della Fondazione, per interesse partitico si è consentito alla Fondazione di detenere la maggioranza assoluta del capitale della banca, in violazione della legge Ciampi, e questa, per non perderla, ha fatto fare alla banca operazioni sui derivati che ne hanno deteriorato il bilancio.
allimento di mercato le acquisizioni, da quella del Salento sponsorizzata dai vertici Pds, a quella disastrosa di Antonveneta, tra “difesa” (!) dell’italianità, e assicurazione del regolatore (la memoria va al piano regolatore di Fazio)? Dicono che Mps nazionalizzata verrebbe poi venduta guadagnandoci pure; ad alcuni Paesi è riuscito, ma la nostra storia è diversa, e la diffidenza è d’obbligo. Se è vero quanto diceva Churchill, che «nessuna crisi deve andare sprecata», questo non pare un gran buon inizio: troppe ambiguità.
Ambiguità è pensare che nazionalizzazione significhi addossare allo Stato (rectius ai contribuenti) le perdite. Tutto il contrario: è per evitare questo rischio che il Single supervisory mechanism (Ssm) ha svalutato gli Npl a cifre prudenziali, facendo così aumentare a 8,8 mld di euro l’aumento di capitale.
Ambiguità è lasciar pensare che la totalità dei bond subordinati venduti agli investitori retail finisca per essere rimborsata: dato che la ricchezza delle famiglie italiane detentrici di obbligazioni bancarie è il doppio della media, è probabile che i bond subordinati nelle mani di soggetti che abbiano il legittimo interesse a farsi rimborsare valgano 2 miliardi di euro, la metà del totale.
Per non sprecare la crisi, bisogna guardare non solo Mps, ma il sistema bancario nel suo complesso. Con poche eccezioni, tutte le nostre banche hanno problemi: le sofferenze del sistema sono stimate in oltre 200 miliardi di euro, per venderle a un prezzo che non apra voragini nei bilanci, ci andrebbe un intervento doppio dei 40 miliardi, il 2,5% del Pil, stanziati dal Governo. Tutta la colpa alla crisi? Di essa le banche sono vittime e artefici, se si è protratta oltre quanto è successo in altri Paesi è non solo per difficoltà congiunturali ma per problemi strutturali. Ogni sofferenza è la dimostrazione che la banca non è stata capace di fare il suo mestiere, dare il merito di credito; per non parlare di quello di gestire il rapporto con il debitore in difficoltà. Troppe filiali, troppi dipendenti, troppe poche competenze. Nell’era dello smartphone, la prossimità è funzionale solo a rapporti collusivi e opachi. All’appuntamento con la tecnologia la finanza c’era, e ne è uscita trasformata e potenziata; le banche no. Vi vedete salire su una macchina a guida automatica, e chiederle di portarci in filiale?
Per non sprecare la crisi, bisogna cambiare specularmente anche il comportamento dei risparmiatori. Devono abituarsi a vivere in un mondo in cui non ci sono più santuari, in cui non si accorda la fiducia a priori, in cui si possono disintermediare le banche, in cui sono i clienti a dare i voti: benvenuti nel mondo del bail-in. Le sue regole, diventate ufficiali a metà 2012, erano oggetto di discussione già dal 2009-10, le obbligazioni subordinate vendute direttamente alle famiglie sono quasi raddoppiate dal 2008 al 2015: quante ne sono state vendute in questi 6-7 anni, quanti prospetti sono stati approvati, quante “Giornate del risparmio” sono state usate per informare le famiglie dei rischi che comportavano? In sostanza, che cosa è stato fatto per l’informazione del risparmiatore oltre che per la tutela del risparmio; perché la norma costituzionale comporta diritti per alcuni e doveri per altri.
Un cambiamento che chiama in causa il nostro governo e i nostri regolatori.
Non sprecare la crisi è anche risolvere il problema del tempo per il recupero dei beni dati a garanzia del prestito. I sette anni in media che oggi ci vogliono, dovranno ridursi a uno e mezzo, dice la norma recente, che però vale solo per i nuovi crediti (a crederci). Se la norma venisse estesa a tutto lo stock dei 200 miliardi di crediti in sofferenza, il loro valore commerciale potrebbe circa raddoppiare e quindi potrebbe dimezzarsi il nuovo capitale che le banche devono procurarsi. Sarebbe interessante fare il conto di quanto ci costa la resistenza di avvocati, cancellieri, magistrati.
Finora abbiamo sprecato la crisi. Spesso si è preferito ritardare nel rendere note le difficoltà delle singole banche, ritenendo che il pericolo da evitare fosse il bank-run, la corsa agli sportelli. Nel 2012 abbiamo sottostimato le difficoltà strutturali delle banche, ritenendo che il male da evitare fossero le “condizionalità” e il danno reputazionale connessi a un aiuto europeo. Ma oggi i nostri giovani, se possono, vanno a studiare o a lavorare altrove, e i nostri capitali cercano impieghi all’estero, come dimostra il crescere del saldo di Target2.
Temevamo un bank-run, è un country-run quello a cui potremmo andare incontro. Se sprechiamo la crisi.
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