La tragedia di Mestre, con 21 morti, passeggeri di un bus che ha sfondato le barriere del viadotto che passava lungo la ferrovia è solo una delle tante stragi che vedono implicati degli autobus. La mente va a quanto avvenuto dieci anni fa, il 28 luglio 2013, in provincia di Avellino, quando un autobus finiva una discesa piombando senza freni sulla barriera, sfondandola e precipitando dal viadotto di Acqualonga: morirono 40 persone.
“È il momento del dolore, poi chiariremo le cause” dice il governatore Zaia. Non è accettabile che in un paese come il nostro perdano la vita persone che hanno scelto di fruire di un normale servizio di trasporto, fiduciosi che sia sicuro. Qualcuno quel mezzo l’ha costruito, qualcuno lo guidava; qualcuno quella strada la gestiva, col suo manto di asfalto, la sua segnaletica, le sue barriere di sicurezza.
Le indagini sono solo all’inizio. Già circolano in rete foto di barriere basse e arrugginite, stranamente interrotte, nel punto della fuoriuscita, per circa 2 metri. Se questo abbia avuto un’influenza sulla tragedia dovranno essere le indagini a stabilirlo: oggi è il momento della partecipazione al dolore, per il futuro una adeguata prevenzione si deve basare su una precisa definizione delle responsabilità.
La tragedia di Avellino avrebbe dovuto insegnare qualcosa o è un fatto totalmente differente? Avvenne su un’autostrada su cui Autostrade per l’Italia, che, all’epoca dell’incidente, apparteneva al gruppo Atlantia. E quel viadotto aveva visto appena 4 anni prima, nel 2009, un completo intervento di ristrutturazione. Per il tragico incidente vennero incriminati l’ingegnere Giovanni Castellucci, Amministratore Delegato di Autostrade per l’Italia e di Atlantia, oltre a una decina di tecnici. In primo grado vennero condannati i tecnici delle strutture territoriali che avevano la responsabilità della sorveglianza e gestione del viadotto ed assolte con formula piena le strutture centrali incluso l’amministratore delegato perché non hanno commesso il fatto. Farà quindi discutere i giuristi la sentenza di secondo grado, che ribaltando quella di primo grado, ha condannato Castellucci insieme a tutti gli altri tecnici della sede centrale.
Chi giurista non è, ma ha passato un terzo della sua vita a lavorare in società per azioni, dalle piccole alle massime nazionali, con incarichi sia operativi sia consiliari, è interessato in primo luogo ai meccanismi di interazione e di ripartizione di responsabilità tra vertice della azienda (consigli di amministrazione e amministratori delegati) e strutture operative sul territorio. Cioè, la catena delle deleghe attraverso la quale le decisioni strategiche apicali si traducono, scendendo di livello in livello, in attività operative periferiche.
Nel caso di Mestre, la delega inizia con il voto degli elettori, e continua per i vari livelli previsti per la Pubblica Amministrazione. Nel caso di Acqualonga il primo anello della catena è il consiglio di Amministrazione, i suoi consiglieri sono responsabili delle decisioni che essi hanno contribuito a fare approvare. il Consiglio, su proposta dell’Amministratore Delegato Giovanni Castellucci, aveva deliberato cinque anni prima di procedere, per i 2200 km di autostrade che non avevano mai visto interventi di miglioramento delle barriere, all’elevazione degli standard delle barriere di contenimento al massimo livello di resistenza, stanziando la somma di €138 milioni, e attribuendo al Direttore Operativo i poteri di committente per l’esecuzione del piano. La catena delle deleghe prosegue con la nomina, da parte del committente, del RUP (Responsabile Unico del Procedimento), e gli incarichi al progettista, al direttore dei lavori e agli esecutori dell’opera. È il progettista, non il consiglio di amministrazione, a essere responsabile che il progetto sia rispondente ai requisiti di legge e alle richieste del committente. È il direttore dei lavori che ha il compito di controllare l’opera dell’esecutore.
Perché quel giorno del 2013 la barriera del viadotto di Acqualonga cedette? A parte la sollecitazione eccezionale a cui venne sottoposto (il bus arrivò sul viadotto a circa 120km/ora) si constatò che in quella barriera, che era già ai massimi livelli di contenimento perché sostituita qualche anno prima, a cedere furono pochi bulloni, corrosi dalle soluzioni antigelo portate da rivoli d’acqua piovana nel manto stradale, che non furono individuati dal progettista che quindi non ne dispose la sostituzione pur avendo ricevuto dal committente ampia delega di spesa.
Il funzionamento delle società, come quello delle pubbliche amministrazioni, si basa sul principio di delega. Questo richiede che gli ordini siano chiari, le responsabilità definite, filtrate a monte le informazioni su fatti che si discostano ed in maniera significativa da quanto previsto. Sapere tutto, oltre che essere una pretesa impossibile, darebbe luogo all’inazione e al blocco di ogni attività. Come c’è la mappa e il territorio, il verum e il factum, così c’è la strategia e l’esecuzione. Che cosa doveva seguire allo stanziamento di 138 milioni per l’elevazione della sicurezza delle barriere? Chi doveva decidere come accertarsi dello stato di ogni singolo metro di quei 2200 km? Chi doveva istruire l’operaio che avrebbe dovuto esaminare per conto del progettista la base del new-jersey e che avrebbe potuto vedere i bulloni corrosi se li avesse smontati correttamente? Era compito dell’Amministratore Delegato o di chi doveva assicurare nello specifico la sicurezza della rete o la completezza del progetto? Il Consiglio di Amministrazione aveva dato risorse in linea con le richieste delle strutture tecniche? Erano sufficienti? Queste sono le responsabilità dei vertici.
Ci sono materie, e la sicurezza è una di queste, in cui chi è delegato ha spesso poteri superiori a quelli di chi delega.
La catena delle deleghe è indispensabile in un gruppo come Atlantia (ora Mundys) diventato, con Castellucci amministratore delegato per 13 anni, leader mondiale nel settore delle infrastrutture, titolare di 53 concessioni autostradali e di gestore di 5 aeroporti. Indispensabile lo è per il funzionamento della P.A., dove la delega è intrinseca al processo democratico che elegge i reponsabili apicali, conferendo loro il potere di designare la struttura organizzativa. È solo la deliberata ignoranza delle funzioni della delega che consente alla politica di essere, come scrive Claudio Cerasa, “incapace di mostrare pietà” (per le vittime), “senza cercare un cappio (per i supposti responsabili) da mostrare su Instagram”.
Senza deleghe non ci sarebbero, a ben vedere, neppure strade e autostrade; non ci sarebbero grandi aziende, perché un’azienda non diventa grande se non risolve bene il problema della delega. Conseguentemente, se è il Paese a non risolverlo, non avrà grandi aziende. E questo ha implicazioni rilevanti: perché la bassa crescita della nostra produttività è generalmente ricondotta alla modesta dimensione di una percentuale elevata delle nostre aziende. E a sua volta questo viene spiegato con la riluttanza a dare una risposta soddisfacente al problema della delega: quando un piccolo imprenditore preferisce mettere a capo della sua azienda il figlio o un parente stretto piuttosto che assumere un laureato di cui non si fida, tanto più se è portatore di una cultura che non capisce. E poi ci stupiamo se le piccole aziende famigliari sono meno innovative.
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