di Francesco Giavazzi
Il governo si appresta a sostituire i vertici della Cassa depositi e prestiti, la più grande istituzione finanziaria italiana. Per avere un’idea delle dimensioni, si pensi che il suo bilancio è dieci volte quello di Unicredit e Intesa Sanpaolo messe insieme. Lo Stato ne possiede oltre l’80 per cento, il capitale restante è detenuto da alcune fondazioni: Cariplo, Fondazione San Paolo, e altre. Che il governo desideri «metterci la faccia» assumendosi la responsabilità della gestione (il presidente, Franco Bassanini, e l’amministratore delegato, Giovanni Gorno Tempini, furono nominati ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, anche se scadrebbero solo l’anno prossimo) è non solo naturale, ma anche opportuno. Infatti, diversamente da altre aziende, come l’Eni, di cui lo Stato detiene il 30%, ma investitori privati detengono il 70%, la Cassa non ha veri soci privati. È quindi opportuno che il ministero dell’Economia eserciti pienamente i suoi doveri di azionista quasi totalitario. Ma nel momento in cui lo fa deve spiegare con grande trasparenza quali sono gli obiettivi che intende perseguire con questa enorme quantità di denaro generata dai nostri risparmi.
Negli ultimi anni la Cassa ha operato con obiettivi diversi. Nel caso di Ilva, ad esempio, si è opposta ad intervenire nell’azienda pugliese. H a ritenuto che sarebbe stato preferibile che lo Stato accettasse l’offerta di Mittal, il grande operatore siderurgico indiano, interessato ad acquisire il laminatoio di Taranto. Una scelta «di mercato» che non fece piacere al governo Renzi. In quella, come in altre vicende simili, il fatto che lo statuto della Cassa le vieti di investire in aziende in perdita ha consentito agli amministratori di opporsi a estemporanee sollecitazioni della politica che chiedevano interventi a prescindere dalla redditività economica.
Contemporaneamente la gestione di Bassanini e Gorno Tempini ha fatto anche investimenti discutibili. Ad esempio entrando (seppur non direttamente ma attraverso il suo Fondo strategico, del quale però la Cassa controlla oltre i due terzi del capitale) nella società Rocco Forte Hotels, con la scusa che gli alberghi sono un «settore strategico»; nella Cremonini, con la scusa che la filiera della carne è anch’essa «strategica» per il settore agroalimentare; nella Trevi, un’azienda di ingegneria; nella Sia, una società di servizi bancari, e così via. Investimenti dei quali si fa fatica a comprendere la strategia, a meno che essa non consista nel fare le medesime scelte che farebbe un investitore privato ma con l’immenso vantaggio di una raccolta che non costa quasi nulla perché garantita dallo Stato e di un azionista, sempre lo Stato, che non esige rendimenti particolarmente elevati.
Tre sono le domande cui il governo dovrebbe rispondere prima di metter mano al dossier Cassa.
Prima domanda: perché l’utilizzo di questa straordinaria quantità di risparmio delle famiglie deve essere decisa dalla politica, anziché da investitori privati? Quali obiettivi intende perseguire? Il governo è disposto ad impegnarsi a far sì che la Cassa intervenga solo là dove si verificano dei chiari «fallimenti del mercato», il che evidentemente esclude l’investimento in alberghi o in società di ingegneria? Impegnerà la Cassa a non detenere le azioni delle aziende acquisite per più di tre anni, dando così credibilità all’impegno che l’intervento pubblico, là dove giustificato da un fallimento del mercato, sia propedeutico ad una successiva privatizzazione? Ad esempio, la Cassa vuole acquisire aziende pubbliche locali (già partecipa agli aereoporti di Napoli, Torino e Milano, ad un termovalorizzatore a Torino, eccetera) in modo da favorirne l’aggregazione e poi la privatizzazione. Ma senza un vincolo su quanto a lungo ne potrà detenere le azioni, da queste aziende la Cassa non uscirà mai con la scusa che sono uno strumento per fare «politica industriale». Insomma, il rischio è che la disponibilità di uno strumento di intervento tanto ricco dia luogo ad una continua ricerca di ambiti nei quali utilizzarlo. È come dare 100 euro ad un ragazzino chiedendogli di usarli solo per le emergenze: quanto passerà prima che li usi per cambiare il suo smartphone ?
Altrettanto importante è impedire che la Cassa pompi ricavi esagerati dalle sue partecipazioni in alcuni monopoli naturali, come le reti elettriche e del gas, a scapito dei consumatori. Il che significa impedire che la Cassa sia, come è oggi, un’interfaccia opaca fra mercato e regolamentazione con conflitti di interesse ubiqui. Si pensi ad esempio al caso del risparmio postale: quando la Cassa fissa le commissioni per la raccolta, di fatto determina il risultato economico delle Poste, a scapito del consumatore.
La seconda domanda riguarda lo statuto della Cassa e il ruolo delle fondazioni. La loro definizione di azionisti «privati» è evidentemente una foglia di fico: le fondazione bancarie tutto sono tranne che azionisti che operano con criteri di mercato. Ciononostante esse oggi svolgono, come azionisti della Cassa, due ruoli importanti. Innanzitutto la loro presenza, fosse anche con una sola azione, evita che il bilancio della Cassa sia consolidato nei conti dello Stato. Se ciò accadesse il governo non potrebbe più «privatizzare» aziende pubbliche, come ha fatto con Eni ed Enel, semplicemente spostandone il possesso dal ministero dell’Economia alla Cassa. In secondo luogo, senza il consenso delle fondazioni è impossibile cambiare lo statuto della Cassa. Questo è un problema perché, come già accennato, lo statuto attuale non consente di intervenire in aziende in perdita. Se quindi il governo volesse usare la Cassa anche per risolvere crisi industriali – come ha dimostrato di voler fare nel caso dell’Ilva – dovrebbe cambiarne lo statuto. Per farlo, o estromette le fondazioni o le convince obtorto collo ad accettare una modifica dello statuto. Che intende fare?
La terza domanda è più generale. Vorrei che il presidente del Consiglio, prima di nominare il nuovo vertice della Cassa, spiegasse che cosa pensa del rapporto fra Stato e mercato. Ad esempio, si sente spesso dire che senza sussidi pubblici non ci può essere innovazione. A questo proposito alcuni citano il caso dell’iPhone che a loro parere non esisterebbe se 70 anni fa il Pentagono non avesse investito nella tecnologia da cui poi è nata la Rete. Innanzitutto qualunque cosa abbia fatto il Pentagono 70 anni fa, senza l’intuizione di Steve Jobs certo non avremmo l’iPhone; inoltre vi è un’enorme differenza fra mettere in gara imprese private per una fornitura militare o assegnarla a Finmeccanica, un’azienda di cui lo Stato è il maggior azionista. Che pensa Matteo Renzi di queste discussioni?
Pare che il prossimo investimento della Cassa sarà nella banda larga, con la giustificazione che Telecom non la vuole fare – se non addirittura un ingresso diretto nell’azionariato della società (cioè una ri-nazionalizzazione) per propiziare una decisione in quel senso. Telecom ritiene che un investimento nella banda larga non produrrebbe un sufficiente rendimento economico, e quindi distruggerebbe valore per gli azionisti. Può darsi che si tratti di un caso evidente di fallimento del mercato che giustifica l’intervento pubblico. Ma ne siamo proprio sicuri?
Qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili – un caso, si disse, di fallimento del mercato – il governo decise di sussidiare l’installazione di pannelli solari. Furono così concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l’anno: pagati dalle famiglie, nelle loro bollette elettriche, a poche migliaia di fortunati. E non solo si è creata un’enorme rendita che durerà per un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i pannelli sussidiati dallo Stato rimarranno lì per vent’anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.
giugno 14, 2015