di Pietro Ichino
Il nodo è il rischio di paralisi del progetto per il veto di un sindacato minoritario
Caro direttore,
è davvero difficile capire il comportamento della Fiat a Melfi. Questo scontro sulla reintegrazione dei tre lavoratori licenziati pone al centro del dibattito una scelta nella quale l’azienda ha probabilmente torto, perché l’ordinanza cautelare del giudice deve essere rispettata integralmente, anche se la si ritiene sbagliata. Lo scontro di Melfi distoglie invece l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni assai più importanti sollevate – con piena ragione, queste – dall’amministratore delegato della Fiat, quando ha proposto al nostro Paese il suo colossale piano industriale.
Nella vertenza esplosa in seno allo stabilimento lucano l’azienda può forse avere ragione sul merito della questione: non si può affatto escludere – neppure il tribunale di Melfi, nella sua ordinanza del 9 agosto scorso, lo esclude – che effettivamente i tre sindacalisti durante lo sciopero del 7 luglio abbiano operato deliberatamente per ottenere il blocco dei carrelli automatici, in modo da paralizzare l’attività dello stabilimento, nonostante che la maggioranza dei lavoratori avesse rifiutato di aderire all’agitazione. Ma già la scelta del licenziamento, in un caso in cui avrebbe potuto adottarsi anche una sospensione disciplinare, ha l’effetto di radicalizzare lo scontro; ora non si comprende davvero la necessità dell’ulteriore inasprimento conseguente alla scelta di ottemperare in modo cavilloso all’ordine provvisorio del giudice (la direzione aziendale non impedisce ai tre licenziati l’ingresso in azienda, né l’esercizio da parte loro dell’attività sindacale, ma li esonera dalla prestazione lavorativa). Le stesse Cisl e Uil, che in questa vicenda appoggiano il piano industriale di Marchionne, sono messe in difficoltà da questa scelta dell’azienda.
Vero è che la Fiat probabilmente annette all’episodio del blocco dei carrelli verificatosi durante lo sciopero del 7 aprile un significato di portata più generale, vedendo in esso la prima manifestazione di una guerriglia con cui la Fiom – pur minoritaria tra i dipendenti Fiat – potrebbe proporsi di impedire l’attuazione dell’accordo sul piano industriale, approvato dalla coalizione sindacale maggioritaria. E questo è proprio il nodo cruciale della questione che Marchionne ha il merito di aver posto apertamente all’Italia: non è pensabile che una multinazionale investa miliardi su di un piano industriale se questo è esposto al rischio di essere paralizzato dal veto di un sindacato minoritario. E non soltanto dal veto della Fiom, che qui rappresenta pur sempre un quinto dei lavoratori interessati, ma anche da quello del mini-sindacato o del comitato di base che ne rappresenti, in ipotesi, l’1 per cento. Non si può dimenticare che i Cobas alla Fiat di Pomigliano hanno proclamato lo «sciopero permanente dello straordinario» fino al 2014 e che, secondo il nostro diritto sindacale attuale (caso unico in Europa) qualsiasi dipendente potrà in qualsiasi momento aderire a questo sciopero, perché il patto di tregua contenuto nell’accordo per il nuovo piano industriale non vincola i singoli lavoratori: con questo si toglie ogni certezza di efficacia a una delle clausole che costituiscono la chiave di volta della nuova organizzazione del lavoro prevista dal piano.
Se a questo aggiungiamo la guerriglia giudiziaria che, nel nostro ordinamento attuale, può essere scatenata anche contro altre clausole di importanza cruciale per il piano industriale (in quanto stipulate in deroga rispetto al contratto collettivo nazionale) si comprendono le ragioni di Marchionne, quando ci chiede di adeguare il nostro sistema di relazioni industriali rispetto agli standard dell’Occidente industrializzato. La sua richiesta esplicita e ruvida scandalizza chi, nella vecchia sinistra politica e in quella sindacale, è rimasto legato a un’idea del diritto di sciopero ispirata al modello della conflittualità permanente «anni ’70». Invece l’amministratore delegato della Fiat ci fa un servizio prezioso: le altre multinazionali non perdono tempo a discutere di queste cose quando decidono di starsene alla larga dal nostro Paese. Se rifiutiamo di prendere sul serio quello che Marchionne ci propone, e che è normale in quasi tutti gli altri Paesi industrializzati, chiudiamo gli occhi su una delle cause principali (non l’unica, certo, ma sicuramente una delle più importanti) dell’incapacità dell’Italia di attirare gli investimenti stranieri: in Europa solo la Grecia fa peggio di noi, su questo piano. E dimentichiamo che correggere questo nostro difetto e aprirci agli investimenti delle multinazionali costituisce la leva più efficace di cui oggi possiamo disporre per ricominciare a crescere, dopo un quarto di secolo di stagnazione, fare crescere la domanda di lavoro e le retribuzioni.
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agosto 23, 2010