“Dobbiamo navigare tra Scilla e Cariddi, creare competizione sul mercato del gas, ma senza danneggiare l’ENI; l’Italia aprirà il suo mercato interno se ci verranno garantite condizioni di reciprocità dai nostri partner europei.”
Questo il concetto espresso dal Ministro dell’Industria in Senato. E mentre ascoltavo le sue parole pensavo – spero che Enrico Letta non mi giudichi irrispettoso – ai taxi di Roma. Perché è chiaro che il cittadino si avvantaggerebbe se il comune liberalizzasse concessioni orari e tariffe: ma i taxi a Roma sono 6000, controllano probabilmente 20.000 voti, quale politico può permettersi di ignorarli?
E’ da 200 anni che si sa che l’apertura dei mercati avvantaggia anche chi è meno efficiente in tutte le produzioni esposte alla concorrenza, anche il paese che apre unilateralmente i propri mercati. E invece si deve pagare il proprio tributo all’idea che la liberalizzazione sia uno strumento da maneggiare con cura, e che l’apertura dei mercati sia un sacrificio che o lo si fa tutti insieme, o chi lo fa da solo rimane danneggiato: Scilla e Cariddi. Invece, se è vero come è vero che un mercato concorrenziale è più vantaggioso per un paese che un mercato monopolistico, noi dovremmo rallegrarci se i nostri vicini praticano politiche protezioniste, se fanno pagare ai loro cittadini il prezzo di pratiche monopoliste; dovremmo cercare di approfittare del vantaggio competitivo che in tal modo noi possiamo dare alle nostre imprese, e dunque liberalizzare di più e più in fretta.
Come diceva Ronald Reagan “ Se siamo in barca tu ed io, e tu fai un buco nella barca, forse che per reciprocità mi metto a farne uno anch’io?” In 200 anni il principio ha ricevuto innumerevoli conferme e nessuna smentita: ma per tutte le amministrazioni ogni liberalizzazione è un negoziato, in cui soppesare i do ut des.
Le liberalizzazioni sono state più facili quando le compensazioni tra vantaggi e svantaggi sono avvenute all’interno di un singolo gruppo di interessi: se l’abolizione delle barriere tariffarie è bilaterale, per il gruppo delle imprese manifatturiere l’opportunità di penetrare altri mercati può compensare il rischio di trovarsi la concorrenza in casa propria. Ma quale vantaggio prospettare al piccolo esercente per la liberalizzazione degli orari e delle licenze? Non è per il vantaggio dei consumatori che è stata decisa la liquidazione dell’IRI, ma perché le imprese private si ribellavano all’idea di dover finanziare – con le proprie tasse – gli aiuti di stato che permettevano alle imprese pubbliche di sopravvivere e di fargli concorrenza sleale.
Ma per arrivare al gran passo di liquidare l’IRI ci vollero pure visione e determinazione di un uomo, Beniamino Andreatta. E questo valga a ricordarci che per fare le riforme la politica deve essere capace di conquistare i cittadini a un progetto diverso, a una nuova composizione di interessi in cui tutti possano ritrovare il proprio particolare. E’ politica debole quella che decide in base alla somma vettoriale degli interessi esistenti: e quando la politica è debole, anche la miglior volontà riformista si degrada a risultati pasticciati, che si tratti di elettricità o di fondi pensione.
E’perché oggi la politica è debole, che si guarda con apprensione al decreto attuativo della delega approvato ieri dal Consiglio dei Ministri.
Quello del gas è stato fino a pochi mesi (addirittura giorni fa) un monopolio più blindato di quello dell’energia elettrica: 90 % della produzione, 91 % dell’importazione, 96% del trasporto, 99% dello stoccaggio. L’ENI logicamente difende i propri interessi. E’ veramente così difficile oggi per la politica far prevalere gli interessi di tutti? E’ proprio anche in questo caso come per i taxi di Roma?
I sindacati sono sempre stati in prima linea. Ma un po’ d’acqua è passata da quando i tre segretari di CGIL, CISL e UIL, tutti insieme e concordi, difendevano a spada tratta l’integrità dei perimetri aziendali dei monopoli, da quando Franco Bernabè arrivava a mettere in gioco la sua persona purché la distribuzione del gas restasse in ENI.
Telecom è stata privatizzata e ( dopo qualche pena) ha fatto assaporare a milioni di azionisti il gusto di un’azienda finalmente liberata dai vincoli del passato. Levare all’ENI posizioni di monopolio è nell’interesse dei suoi azionisti: apparentemente è un paradosso, ma i risparmiatori che hanno azioni ENI in portafoglio sanno bene che “sono le scommesse a far correre i cavalli” come diceva Mark Twain, vale a dire che è la possibilità della scalata che fa crescere il titolo.
E quanto più si mantiene il ruolo strategico dell’ENI, tanto meno probabile è che la proprietà dell’ENI diventi realmente contendibile.
Quando è stata privatizzata, Telecom ha dovuto vendere Seat. Vicenda emblematica: era necessario venderla perché un’azienda polverosa diventasse una star della new economy. Rescindere i cordoni ombelicali, focalizzare il business, svegliarsi col fiato sul collo della concorrenza: si deve passare di lì per creare valore, per l’azienda e per il paese.
Separare la proprietà della trasmissione ad alta pressione del gas dal resto del gruppo ENI: questo è il cardine su cui dovrebbe ruotare tutto il progetto di liberalizzazione del settore.
Il decreto legislativo, predisposto dal ministro Letta e approvato ieri dal Consiglio dei Ministri non lo prevede. Ma ora che viene trasmesso alle Camere per i pareri dovuti, è il momento giusto per discuterne a fondo. Questa è una riflessione preliminare, sulla necessità per la politica di convincere gli interessi particolari ma organizzati e di far prevalere le ragioni generali ma diffuse. Queste posizioni oggi sono meno distanti di quanto pare, se solo si guarda senza pregiudizi alla realtà dei nuovi valori che si affermano. Scambiare una rete di tubi di ferro sottoterra con danaro da investire nella ricerca e nella produzione di prodotti energetici è una sfida coerente con la missione vera dell’ENI.
E’ nei suoi cromosomi, si ha la presunzione di pensare che sarebbe piaciuta al “vecchio” Mattei.
febbraio 15, 2000