Meglio dichiarare prima le alleanze

dicembre 13, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Il rischio – Una grande coalizione, se è questo l’obiettivo, peserebbe troppo in termini di ambiguità dei programmi

Nessun partito, con nessuno dei sistemi elettorali in discussione, può avere da solo la maggioranza dei seggi in Parlamento: per governare, dovrà stipulare alleanze. Saranno dichiarate prima del voto, oppure negoziate a urne chiuse? La dichiarazione varrà come impegno per tutta la legislatura, oppure le alleanze potranno essere cambiate in corsa? Questa è la questione di fondo, e tocca la radice stessa della democrazia: sapere che cosa si vota e scegliere da chi si vuole essere governati.

Ma di questo si discute poco: molto si discute invece di “sistemi”, che altro non sono che le formule che traducono il numero di voti nelle urne in numero di seggi in Parlamento: questione importante, ma tecnica, che riguarda i partiti, e che dunque viene dopo la questione democratica, che riguarda i cittadini. Invece si sostiene che la questione sia risolta con la formula “vocazione maggioritaria”, e se ne cela la preminente importanza dietro una cortina fumogena di argomenti.
E’ cortina fumogena la tesi fatta propria da Eugenio Scalfari (Cade, non cade, magari ce la fa, la Repubblica del 9 Dicembre), secondo cui “il premio [di maggioranza] obbliga a comporre coalizioni non coese”. E’ probabile che ciò sia vero se il premio va alla coalizione. Se va invece al partito che prende più voti, dovrebbe favorire la coesione: a patto che coeso sia il partito, o per interesse – com’era la DC – o per ideologia – com’era il PCI. D’altronde tutti i marchingegni di cui si discute, dallo sbarramento tedesco, ai collegi piccoli spagnoli, e le loro combinazioni … vassalle, hanno un premio di maggioranza implicito a favore dei partiti maggiori.

E’ cortina fumogena la tesi secondo cui “il biparitismo non è adatto” (Bruno Tabacci, il Sole 24 Ore del 7 Dicembre), perché con alleanze vincolanti si sconvolgerebbe il nostro assetto costituzionale, passando da un sistema parlamentare a uno presidenziale, o da uno bipolare a uno bipartitico. C’erano alleanze dichiarate ma non bipartitismo dal 1994 ad oggi, non lo è quello della legge Calderoli, votata dalla UDC, presumo anche dall’on.le Tabacci. Non ci sarebbe presidenzialismo se fossero in vigore le norme antiribaltone, o i maggiori poteri del primo ministro, contenuti nella costituzione del 2001, approvata essa pure dall’UDC, e poi bocciata dal referendum.
Eliminare la frammentazione dei partiti è impossibile stante il divieto di vincolo di mandato: però si può contenerla con modifiche ai regolamenti parlamentari e alle leggi sul finanziamento pubblico. Far credere che questi rimedi agiscano solo su parlamenti eletti col proporzionale e non col maggioritario, anche questo argomento contribuisce alla cortina fumogena.
Chi ha interesse ad evitare di dover dichiarare prima delle elezioni con chi intende governare? Si capisce un partito minore, con forti motivazioni ideologiche: fare campagna elettorale da solo rafforza gli elementi identitari, fa aumentare i consensi. Ma un partito che raccoglie consensi ampi, dunque meno focalizzati, perde credibilità se presenta un programma che verrà modificato in funzione del partito con cui si alleerà. Prendiamo il PD, supponiamo che un sistema iberotedesco gli abbia dato il 35% dei seggi: che cosa ci guadagna a non dichiarare se governerà con l’UDC oppure con la sinistra arcobaleno? Evidentemente Veltroni pensa così di non perdere né i voti di chi non vuole un’alternativa né di quelli che aborrono l’altra, e così di avere maggiore potere negoziale dopo le elezioni. Tanto poi sarà la necessità di dare un Governo al Paese a dare la licenza a “interpretare” in modo elastico il programma originario.

Questo è dunque ciò che si chiede ai cittadini: esprimere col voto non una volontà, ma una fede; e dare un mandato ampio a “interpretare” promesse e impegni elettorali. E’ una proposta ragionevole? In passato alleanze di Governo concluse in Parlamento dopo le elezioni non sono state sinonimo di coerenza: rivedremo i “preamboli”? Ma soprattutto, dove sta scritto che il potere di scegliersi gli alleati appartenga al partito più grosso? Chi assicura Veltroni che le condizioni di un’alleanza, poniamo, con il centro sarà lui a dettarle e non viceversa? Ricorda certo partiti del 30% che contavano meno, nella formazione dei Governi, di partiti del 3%.
C’è un solo caso in cui Veltroni (e Berlusconi) potrebbero essere sicuri di avere loro il potere di formare una coalizione: se contano di fare evolvere la lodevole intesa sulla riforma elettorale in questa legislatura in alleanza di Governo nella prossima. Solo la “grande coalizione” sarebbe garanzia che quella maggioritaria non rimanga allo stadio di “vocazione”. Pessima soluzione, secondo chi scrive. Ma indipendentemente dal giudizio politico, è certo che entrambi i protagonisti pagherebbero un prezzo per l’ambiguità dei programmi, per la minore credibilità nel proporli, per l’opacità nelle trattative, condotte non sotto i riflettori della campagna elettorale, ma nel chiuso delle segreterie dei partiti.

Tra i due, sarebbe il PD a pagare il prezzo più caro. Perché non è per nulla certo che tenendosi le mani libere per il dopo elezioni, il programma su cui si configurerà la coalizione sarà il suo e non quello dell’alleato. Mentre è assolutamente certo che la deliberata ambiguità – ma sì, diciamola la parola, l’inganno – nei riguardi degli elettori è l’esatto contrario della retorica delle primarie. Il modo per dimostrare se la propria vocazione è autentica, è farne pubblica professione. E prendere i voti.

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