È un’assurdità l’emendamento votato da maggioranza e opposizione
Parlare “nel merito” dell’emendamento che pone agli emolumenti dei manager di aziende private un tetto pari a quello dei parlamentari è fuori luogo: significa solo regalare notorietà a chi ha innescato un episodio di cui vergognarsi. Maggioranza e opposizione hanno votato distrattamente, ora attentamente si impegnino a cancellare questa brutta pagina.
Ma un fatto proceduralmente complesso quale l’approvazione di un emendamento non succede per caso. Qui c’è stato il convergere di un doppio populismo, quello del dipietrista firmatario dell’emendamento e quello del relatore leghista che ha dato parere favorevole. Il ministro che ha fatto proprio il parere del relatore potrà chiedere l’assoluzione per non aver compreso il fatto. Il segretario d’aula del PD ha indicato ai suoi parlamentare di votare a favore pensando di essere in linea con il patto di unità d’azione con l’IDV, deciso dopo i fatti di Puglia. Così questo emendamento è passato coi voti di una maggioranza che sostiene il Governo di chi vanta il proprio passato di grande imprenditore, e di un’opposizione che si vanta di essere erede di due grandi culture politiche.
L’ombra della mastodontica assurdità della proposta dipietrista fa passare inosservato l’altro emendamento, su cui si innesta. Scritto e presentato dal Governo, è stato anch’esso approvato, ma senza indicazione di pentimenti. Quindi è su questo che merita ragionare. Il giudizio è netto: è una norma sbagliata nei presupposti e dannosa nelle conseguenze. Essa prescrive che debbano essere approvati dall’assemblea dei soci i pacchetti retributivi non solo – come oggi – di presidente e amministratore delegato, ma di tutti, uno per uno, i dirigenti di primo livello. Ora la politica del personale è ciò che in concreto forma l’identità dell’azienda, il sistema premiante è ciò che rende evidente i suoi obbiettivi. Rendere pubblici per tutti – soci, creditori, clienti, dipendenti – è giusto e utile. Ma una cosa è la trasparenza, altra la responsabilità gestionale, che così invece si sposta dal consiglio di amministrazione all’assemblea dei soci. Le aziende che sono in concorrenza nei prodotti e servizi che offrono sul mercato, lo sono anche nell’attrarre i migliori manager per realizzarli. Il “mercato” dei manager è aperto tutto l’anno, in continuazione si modificano aree di responsabilità, si creano posizioni nuove, si rende necessario procedere a sostituzioni: si vuole che, come con i calciatori, solo in una finestra preassembleare siano ammessi acquisti, vendite e permute? Si vogliono ridurre le richieste, o incentivare la concorrenza? Il modello è quello degli scatti predefiniti, o quello delle aste eBay? In ogni caso la norma risulterebbe in una costrizione della libertà del vertice nell’usare i fattori della produzione per raggiungere i propri obbiettivi. Un vincolo in più, chissà perché, solo per le sole aziende quotate: poi ci si rammarica che il numero di società in Borsa è diminuito rispetto a 20 anni fa. L’assemblea dei soci dovrebbe verificare che i bonus non incentivino comportamenti volti al breve periodo. Anche qui, la trasparenza è una cosa; la vulgata per cui il lungo termine sarebbe la strada della virtù e il breve la tentazione del demonio, è invece pura retorica, buona a fornire più scuse per il passato prossimo che indicazioni per il futuro remoto. Non sono eroi quelli che investono in aziende attendendo anni per vedere l’utile. E non sono speculatori senza scrupoli quelli che investono contando di avere subito laute cedole e crescita della quotazione: anche loro hanno il diritto di votare in assemblea.
È facile ironizzare sull’assurdità suicida della norma dipietrista. Ma la cultura da cui nasce è tanto diversa da quella della norma governativa? Entrambe sono frutti tossici di un’involuzione culturale scatenata dalla grande crisi finanziaria. Sono ormai due anni in cui la ricerca del colpevole ha via via preso di mira gli hedge fund, i prodotti finanziari, la struttura degli incentivi, la professione degli economisti, i modelli di comportamento degli operatori e di funzionamento dei mercati. Se non si crede più alla razionalità dei mercati, è giocoforza credere alla razionalità dell’intervento dello Stato. Poco importa se lo Stato che salva dai problemi è lo stesso Stato che caccia nei problemi, o direttamente (vedi Fannie Mae e Freddy Mac) o indirettamente (vedi tassi di interesse); anzi, le cattive prove dello Stato regolatore diventano motivo per invocare l’intervento dello Stato operatore. Poco conta che cause e conseguenze della crisi siano del tutto diverse negli Usa dove è nata e da noi dove si ripercuote: i sommovimenti economici comportano spostamenti di potere, e il politico scaltro cerca di utilizzarli, là come qua. Chierici – vivi o defunti – che facciano al caso suo li trova sempre.
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