Non e’ affatto detto che un libro intitolato ” Strong managers, weak owners” inviti ad “accettare la formula manager forti, ossia indipendenti, e padroni deboli, ossia discreti, che li lasciano lavorare”, come scrive Bernardo Valli a conclusione del suo “Viaggio tra gli imprenditori” ( Repubblica del 5 Gennaio): in modo opposto la pensa infatti l’autore del libro, Mark J. Roe.
Se lo si rileva non e’ per pignoleria, ma per cogliere l’occasione di chiarire alcune cose su un oggetto tanto citato quanto poco conosciuto, la public company.
Secondo l’analisi fatta mezzo secolo fa da Berle e Means, per cogliere i vantaggi delle economie di scala e delle tecnologie il potere deve passare nelle mani di tecnologi specializzati; per reperire i capitali necessari la proprieta’ deve disperdersi tra una moltitudine di azionisti.
Mark Roe vuole proprio sfatare questa credenza: contro l’opinione diffusa che la struttura della public company sia il prodotto della selezione naturale, l’inevitabile conseguenza di sviluppi tecnologici che richiedono capitali sempre piu’ ingenti, egli dimostra che il modello societario a proprieta’ frammentata e’ il risultato di decisioni politiche. Il federalismo, la diffidenza populistica verso il grande capitale finanziario, la pressione dei gruppi di interesse dapprima impedirono che si formassero forti intermediari finanziari; e poi ne limitarono il ruolo a quello di investitori passivi.
Una straordinaria continuita’ politica collega lo Sherman (1890) al Glass-Steagall Act (1933), l’ inchiesta Pujo (1911) a quella Pecora (1930), Jackson a Wilson a Douglas a Roosevelt. Quando la stessa frammentazione dell’azionariato rese possibile le scalate, fu sempre il sentimento populista a produrre alla fine degli anni 80 la legislazione per renderle difficili. Per i take-over bisogna comperare azioni, per impedirli bastano le leggi: ai politici si offri’ la possibilita’ di compiacere gli interessi dei manager e allo stesso tempo di essere popolari.
L’azienda, osserva Roe, non e’ solo un’organizzazione economica volta a ridurre i costi di transazione: agendo in un ambiente politico, l’impresa deve ad esso politicamente adeguarsi.
E’ necessario iniziare a chiedersi se non siano perseguibili modelli alternativi che rendano i manager piu’ responsabili verso gli investitori. Il grande successo dell’economia americana non significa che non esistano modi migliori di organizzare le imprese, che consentano di rimediare piu’ rapidamente e con minori costi per la collettivita’ ad errori che sono costati miliardi di dollari ad imprese come GM, IBM, Kodak. Dopotutto anche la Germania ed il Giappone, dove prevalgono strutture con maggiore concentrazione di capitale, hanno saputo scrivere storie di successo. Quanto a noi, nel mutuare modelli altrui, e’ necessario ricordare una fondamentale differenza: solo gli USA – finora – hanno dimensione di mercato che consente i vantaggi delle economie di scala e allo stesso tempo quelli della concorrenza tra piu’ imprese.
E la struttura concorrenziale dell’industria, cosi’ come le politiche macroeconomiche, l’educazione e la motivazione dei manager e dei dipendenti, contano, per migliorare efficienza economica e competitivita’, assai piu’ che la corporate governance. I manager operano contemporaneamente su piu’ mercati: quello dei prodotti, quello dei capitali, quello del controllo societario, quello del lavoro dipendente, quello dei manager stessi. I rapporti interni ai consigli di amministrazione sono tanto piu’ importanti quanto piu’ gli altri mercati sono deboli. La corporate governance è solo un’altra forma di concorrenza.
E’ nelle aziende che hanno grandi capitali investiti e che competono in mercati dei prodotti scarsamente concorrenziali che diventa cruciale rendere i manager piu’ responsabili di fronte agli azionisti: perche’ in queste aziende molti capitali possono essere bruciati e molto tempo puo’ passare prima che i manager subiscano le conseguenze dei loro errori. E’ questo il caso delle nostre grandi imprese che forniscono servizi di pubblica utilita’. Proprio ad esse si vorrebbe applicare il modello public company, cioe’ a proprieta’ frammentata. Ma: ad ENI si e’ lasciato il monopolio del gas, Enel sta generando joint venture per farsi concorrenza; e quanto a Telecom, il suo monopolio e’ stato addirittura rafforzato prima della privatizzazione.
L’esperienza dimostra che l’apertura dei mercati non basta, il potere dell’ex-monopolista rimane dominante per anni e anni. Per creare da subito condizioni di concorrenza non solo virtuale, una strada era quella del break-up. Invece mantenere le imprese unitarie ponendo la loro vertice un manager fortemente indipendente dai proprietari e’ sembrata la maniera più affascinante per “gettare lo scompiglio nel salotto buono della grande industria privata italiana”. Lo scompiglio non c’e’ stato, anzi, e si e’ persa la possibilita’ che fosse il mercato concorrenziale a esercitare un controllo sui manager.
E’ proprio per questo che diventa ora cruciale che ci siano azionisti capaci di esercitare la supervisione dell’operato dei manager, una corporate governance che non metta “weak owners” di fronte a “strong managers”. A ben vedere, se c’e’ un settore dove “il sogno di un manager forte”, come recita il titolo del pezzo di Valli, dovrebbe essere “negato”, questo e’ proprio quello dei monopoli ex-pubblici.
gennaio 10, 1998