Parlare di calcio questa settimana è quasi obbligato. D’altra parte, forse perché sono entrambe forme di competizione, fin dai tempi più remoti sport e politica sono uniti da un filo non solo metaforico. Come il calcio è anche quello che si vive sugli spalti, così la politica non è solo quella che fanno governo e Parlamento, ma anche quella che si fa sui giornali, in televisione.
Chi ha visto la partita Italia-Olanda avrà notato lo striscione dispiegato da alcuni tifosi che inneggiavano al «catenaccio». Certo, come nel calcio, anche in politica ci sono situazioni obbligate: quelle che si verificano quando una parte della squadra si è fatta espellere e non partecipa più al gioco, o quando si è in debito di ossigeno. Che si tratti di superare l’esame dell’euro o di passare il turno, in entrambi i casi servono i sagaci rinvii e gli abili anticipi. Ma che questa tattica, questo spettacolo, possano entusiasmare, mi sembra veramente singolare: anzi sono propenso a ritenere che si tratti di una singolarità destinata a restare tale. Credo cioè che calcio dei rigori e politica del rigore non bastino a riempire gli stadi e a conquistare la maggioranza degli spettatori, non valgano a diffondere passioni, che si tratti di quella di guardare o di quella di giocare. Per vincere anche sugli spalti ci vuole altro, bisogna che in campo ci siano anche le limpide geometrie, il dribbling inebriante, il passaggio che spiazza.
Certo c’è sempre qualcuno che stende lo striscione. Pensioni? Viva il catenaccio. Flessibilità? Viva il catenaccio. Liberalizzazioni, che si tratti di treni o di professioni? Catenaccio. Comunicazione politica in tv? Catenaccio. Rendere giustizia ai cittadini facendo funzionare l’amministrazione? Catenaccio. Ma se vogliamo che più gente metta in gioco se stessa, investa le proprie risorse materiali o personali, allora non basta inneggiare al catenaccio. Anche perché non è detto che alla fine non si incontri uno Zidane-Berlusconi che c’intorda.
Quand’era al governo, D’Alema ha cercato, ripetutamente, di forzare il catenaccio. Ha battuto il pugno, ma poi ha dovuto o voluto ritrarlo. E poiché i problemi restano, a superarli si dovranno inventare nuove triangolazioni. Per fare un esempio: in tema di licenziamenti, non c’è nulla da fare, lo so per esperienza personale. Catenaccio. Il passaggio che spiazza potrebbe consistere nell’aggirare il concetto stesso di job property su cui si fonda l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’idea che il posto di lavoro sia assimilabile a una proprietà su cui vantare dei diritti è in contraddizione con il mondo dei nuovi mestieri e delle nuove imprese, quello che invidiamo e che inseguiamo. E a chi contrattaccasse indicando quanta flessibilità à la carte è oggi disponibile con forme contrattuali alternative, si dovrebbe ricordare quanto alle imprese costi, in termini di contrattualizzazione dei rapporti di lavoro, fare ricorso a forme di rapporto speciali: e quanto ciò influisca sulla organizzazione, quindi sulle scelte, sugli orizzonti temporali delle imprese, e quindi quanto alla fine influisca sulla loro dimensione.
Certo, le tattiche giuste sono quelle che portano alla vittoria. Ma tutte le contese si giocano anche su tempi più lunghi, su traguardi più lontani. Per vincere su quelli non basta accontentare solo i tifosi che inneggiano al catenaccio.
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luglio 13, 2000